Pietro Rivasi, curatore indipendente : “La creatività? È un modo di approcciare la realtà ed affrontarne le sfide”

About the Author: Alessia

Published On: 13 Marzo 2020

Tempo stimato per la lettura: 7,8 minuti

Intervistiamo Pietro Rivasi, oggi una delle voci più autorevoli sul campo, curatore indipendente che collabora con artisti, gallerie ed enti pubblici, sia in Italia, sia al’estero.

Pietro Rivasi si appassiona al mondo delle arti urbane durante la prima metà degli Anni Novanta, quando inizia in prima persona a fare graffiti. Nel 2002, insieme ad alcuni amici, dà vita al festival Icone e dal 2008 svolge l’attività di curatore indipendente.

Sei un curatore indipendente e collabori con la Galleria Vicolo Folletto. Quale tipologia di artisti seguite?
Sono un autodidatta del mondo della curatela, non avendo una formazione accademica… vengo dal mondo del writing nel quale il rapporto con l’arte istituzionale è un po’ schizofrenico, ed ho scoperto il significato di questa parola nel 2008, quando ho vinto un bando per giovani curatori nella mia città, Modena. Avevo in realtà già iniziato dal 2002 ad organizzare piccole mostre per promuovere quei writer di cui ero appassionato per i loro lavori “di strada” ma che stavano iniziando a lavorare anche in situazioni espositive ufficiali. Da allora non ho più smesso e dal 2009 al 2012 ho gestito uno spazio chiamato Avia Pervia, per poi essere socio di D406 -Fedeli alla linea per un periodo preziosissimo grazie ad Andrea Lo Savio. Oggi collaboro in modo continuativo con Vicolo Folletto Art Factories di Reggio Emilia. La galleria è giovane e segue artisti con percorsi differenti, come ad esempio Omar Galliani o Mimmo Paladino; le nostre strade si sono incrociate quando, l’interesse per la vicenda delle “Reggiane” (una gigantesca area industriale ricchissima di storia, abbandonata e divenuta una “scuola” autogestita per writer e street artist), ha portato alla attenzione di tutta la città il tema della street art e la galleria ha commissionato a Carlo Vannini una documentazione fotografica di incredibile qualità delle opere realizzate al loro interno, per realizzare una mostra. La passione dimostrata verso questi linguaggi, la disponibilità ad approfondire l’importanza dell’utilizzo della documentazione rispetto al “culto” dell’originale e la fiducia reciproca hanno poi fatto in modo che la collaborazione si protraesse fino ad oggi. Dal 2017 ad oggi, le mostre che abbiamo realizzato insieme hanno portato in galleria tra gli altri Moses&Taps, Alex Fakso, 2501, Honet, Pablo Allison, Egs… artisti contemporanei con radici molto profonde nel mondo dell’arte urbana, anche se con percorsi diversi. Inoltre è sempre in corso un rapporto che va ben al di la delle occasioni espositive, con il Collettivo FX. La prossima mostra in cantiere, che purtroppo abbiamo rimandato per via della difficile situazione legata al coronavirus, avrà come protagonisti Francesco Barbieri di Pisa ed Oker dall’inghilterra.

Di cosa ti stai occupando adesso?
Proprio in questi giorni con l’amico e ricercatore universitario Pierpaolo Ascari, stiamo iniziando un progetto che è in cantiere da parecchi mesi e che consta di un convegno ed una ricerca; il progetto è sostenuto dalla Regione Emilia Romagna, dal Comune di Modena, che si sta davvero impegnando molto e dall’Istituto per i Beni Culturali della regione. La ricerca tenterà di ricostruire come writing e street art siano arrivate in regione negli anni ’80 e si siano poi radicate ed evolute (o involute) fino alla situazione attuale; certamente viste le tempistiche, non sarà pensabile ottenere una ricostruzione completa ed una raccolta esaustiva di testimonianze, ma cercheremo di porre le basi per una ricerca più ampia che oltre agli artisti, interpelli anche tutti quegli attori che hanno lavorato in situazioni che hanno garantito a questi movimenti di crescere. Il convegno riguarderà invece l’arte urbana ma con particolare riferimento ai processi socioculturali che l’hanno intersecata prima che venisse sussunta alle istanze del mercato e alle cosiddette politiche di “rigenerazione”. Inoltre abbiamo avuto una possibilità davvero unica, ovvero di proporre la creazione di una sezione sulle arti urbane sul sito dell’IBC: abbiamo la possibilità di creare schede OAC “pezzi” appartenenti al writing o alla street art e di farli entrare ufficialmente nel database digitale, consultabile da tutti, dell’IBC. Credo un risultato piuttosto interessante nell’ottica di una valorizzazione di questo patrimonio basata sulla sua catalogazione e documentazione, più che sul suo accumulo e feticizzazione.

Ci parli delle mostra 1984?
Nel 2016 grazie a Fausto Ferri ed al gruppo di lavoro della Galleria Civica di Modena, la massima istituzione cittadina per l’arte contemporanea, ho avuto il privilegio di poter curare una mostra importante e con i costi interamente coperti. È stato infatti selezionato un mio progetto, 1984 – Evoluzione e rigenerazione del writing, che aveva come obiettivo quello di mostrare come percorsi diversi di artisti provenienti dal mondo del writing, potessero essere portati all’interno di un museo. In particolare, la sfida è stata quella di allestire un numero importante di opere basate sull’utilizzo di documentazione fotografica o video. È abbastanza intuitivo capire che, essendo gli artisti appartenenti a quel tipo di filone, questa documentazione riproduceva in gran parte quelli che normalmente le persone definiscono come “atti vandalici”. In sostanza, circa la metà dello spazio espositivo era occupato da foto e video di treni o muri dipinti senza alcuna autorizzazione. Il fine era anche spingere i visitatori a soffermarsi su quei segni che normalmente incontrano nei tragitti che percorrono, grazie al cambio di prospettiva che il museo garantisce: se un treno dipinto lo vedo in stazione, magari penso solo ai soldi di tasse che mi costerà pulirlo, ma se lo vedo in una mostra di arte contemporanea, sarò spinto a farmi delle domande. Ho insomma cercato di sfruttare la mia posizione di curatore, per sollevare questo tipo di riflessioni. La mostra ha avuto un altro risvolto molto positivo ed interessante, in quanto 2 installazioni fotografiche, sono state acquisite dalla galleria civica e fanno ora parte dell’archivio permanente; alcune foto sono state poi anche utilizzate successivamente in una mostra collettiva; inoltre, per quanto riguarda l’opera “SI”, la galleria non si è limitata ad acquisire la documentazione fotografica, ma addirittura l’originale attraverso una delibera di consiglio comunale, creando un precedente credo davvero interessante: un’opera realizzata senza permesso di un collettivo non ancora premiato da grandi quotazioni di mercato, viene riconosciuta istituzionalmente come di valore artistico poco tempo dopo la sua realizzazione.

Che cosa significa per te la parola creatività?
È un modo di approcciare la realtà ed affrontarne le sfide.

Quando e come hai iniziato ad appassionati di arte e arte urbana? Ormai molti anni fa, affascinato dall’idea di ribellione che mi trasmetteva lo skate, ho iniziato ad avvicinarmi alle “culture di strada” diciamo. Nella mia città graffiti non ce ne erano e anche gli skaters non erano tantissimi ma ero entrato in contatto con alcuni. Inoltre quella scena in Italia era già sviluppata ed uscivano regolarmente riviste che si potevano comprare in edicola. Su quelle pagine ho visto le prime foto di graffiti, ho iniziato a riconoscere poi gli stessi segni sui muri di Grosseto dove andavo in vacanza o a Bologna dove andavo ogni tanto con gli amici. E poi grazie al negozio di dischi “Aaargh”, sempre di Modena, dove acquistavo quando potevo la musica che trasmetteva Radio Antenna 1 Rock Station. Dentro al negozio c’era un pezzo di ShanR, che ho scoperto anni e anni dopo essere Deda/Katzuma… era di un livello spaziale e poterlo studiare dal vivo un vero privilegio in una città quasi totalmente vergine da quel punto di vista. Parliamo del ’93/’94, non c’era internet e ogni più piccolo spunto veniva studiato ed interpretato fino alla nausea. Ricordo ancora quante ore – ORE – ho passato a studiare ossessivamente ogni centimetro della copertina ed ogni secondo dei testi di “Sfida il buio” di DeeMo.

La tua prima volta in un Museo o una Mostra d’Arte… che ricordo ne hai?
Purtroppo essendo un vero “nerd dei graffiti” ed avendo anche molto poco tempo a disposizione, frequento raramente mostre e musei, a fatica riesco ogni tanto ad andare a quelle che davvero mi interessano. Forse la prima volta che ho percepito la potenza delle opere in quel tipo di contesto, è stato in gita scolastica a Parigi, quando visitammo, costretti, tutti i musei più importanti. Ma devo ammettere che nulla mi ha spinto maggiormente ad interessarmi di segni, pittura, arte, performance e fotografia come i graffiti che vedevo sui treni in stazione o fuori al finestrino andando al mare. Quelle esperienze ancora mi accompagnano e continuano ad essermi di enorme stimolo.

Progetti per il futuro.
Continuare a lavorare sul rapporto fra writing, street art, fotografia, mercato ed istituzionalizzazione.

In copertina: Francesco Barbieri pink junction, mixed media on photograpy, 70×100 cm, 2019

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Published On: 13 Marzo 2020

About the Author: Alessia

Tempo stimato per la lettura: 23 minuti

Intervistiamo Pietro Rivasi, oggi una delle voci più autorevoli sul campo, curatore indipendente che collabora con artisti, gallerie ed enti pubblici, sia in Italia, sia al’estero.

Pietro Rivasi si appassiona al mondo delle arti urbane durante la prima metà degli Anni Novanta, quando inizia in prima persona a fare graffiti. Nel 2002, insieme ad alcuni amici, dà vita al festival Icone e dal 2008 svolge l’attività di curatore indipendente.

Sei un curatore indipendente e collabori con la Galleria Vicolo Folletto. Quale tipologia di artisti seguite?
Sono un autodidatta del mondo della curatela, non avendo una formazione accademica… vengo dal mondo del writing nel quale il rapporto con l’arte istituzionale è un po’ schizofrenico, ed ho scoperto il significato di questa parola nel 2008, quando ho vinto un bando per giovani curatori nella mia città, Modena. Avevo in realtà già iniziato dal 2002 ad organizzare piccole mostre per promuovere quei writer di cui ero appassionato per i loro lavori “di strada” ma che stavano iniziando a lavorare anche in situazioni espositive ufficiali. Da allora non ho più smesso e dal 2009 al 2012 ho gestito uno spazio chiamato Avia Pervia, per poi essere socio di D406 -Fedeli alla linea per un periodo preziosissimo grazie ad Andrea Lo Savio. Oggi collaboro in modo continuativo con Vicolo Folletto Art Factories di Reggio Emilia. La galleria è giovane e segue artisti con percorsi differenti, come ad esempio Omar Galliani o Mimmo Paladino; le nostre strade si sono incrociate quando, l’interesse per la vicenda delle “Reggiane” (una gigantesca area industriale ricchissima di storia, abbandonata e divenuta una “scuola” autogestita per writer e street artist), ha portato alla attenzione di tutta la città il tema della street art e la galleria ha commissionato a Carlo Vannini una documentazione fotografica di incredibile qualità delle opere realizzate al loro interno, per realizzare una mostra. La passione dimostrata verso questi linguaggi, la disponibilità ad approfondire l’importanza dell’utilizzo della documentazione rispetto al “culto” dell’originale e la fiducia reciproca hanno poi fatto in modo che la collaborazione si protraesse fino ad oggi. Dal 2017 ad oggi, le mostre che abbiamo realizzato insieme hanno portato in galleria tra gli altri Moses&Taps, Alex Fakso, 2501, Honet, Pablo Allison, Egs… artisti contemporanei con radici molto profonde nel mondo dell’arte urbana, anche se con percorsi diversi. Inoltre è sempre in corso un rapporto che va ben al di la delle occasioni espositive, con il Collettivo FX. La prossima mostra in cantiere, che purtroppo abbiamo rimandato per via della difficile situazione legata al coronavirus, avrà come protagonisti Francesco Barbieri di Pisa ed Oker dall’inghilterra.

Di cosa ti stai occupando adesso?
Proprio in questi giorni con l’amico e ricercatore universitario Pierpaolo Ascari, stiamo iniziando un progetto che è in cantiere da parecchi mesi e che consta di un convegno ed una ricerca; il progetto è sostenuto dalla Regione Emilia Romagna, dal Comune di Modena, che si sta davvero impegnando molto e dall’Istituto per i Beni Culturali della regione. La ricerca tenterà di ricostruire come writing e street art siano arrivate in regione negli anni ’80 e si siano poi radicate ed evolute (o involute) fino alla situazione attuale; certamente viste le tempistiche, non sarà pensabile ottenere una ricostruzione completa ed una raccolta esaustiva di testimonianze, ma cercheremo di porre le basi per una ricerca più ampia che oltre agli artisti, interpelli anche tutti quegli attori che hanno lavorato in situazioni che hanno garantito a questi movimenti di crescere. Il convegno riguarderà invece l’arte urbana ma con particolare riferimento ai processi socioculturali che l’hanno intersecata prima che venisse sussunta alle istanze del mercato e alle cosiddette politiche di “rigenerazione”. Inoltre abbiamo avuto una possibilità davvero unica, ovvero di proporre la creazione di una sezione sulle arti urbane sul sito dell’IBC: abbiamo la possibilità di creare schede OAC “pezzi” appartenenti al writing o alla street art e di farli entrare ufficialmente nel database digitale, consultabile da tutti, dell’IBC. Credo un risultato piuttosto interessante nell’ottica di una valorizzazione di questo patrimonio basata sulla sua catalogazione e documentazione, più che sul suo accumulo e feticizzazione.

Ci parli delle mostra 1984?
Nel 2016 grazie a Fausto Ferri ed al gruppo di lavoro della Galleria Civica di Modena, la massima istituzione cittadina per l’arte contemporanea, ho avuto il privilegio di poter curare una mostra importante e con i costi interamente coperti. È stato infatti selezionato un mio progetto, 1984 – Evoluzione e rigenerazione del writing, che aveva come obiettivo quello di mostrare come percorsi diversi di artisti provenienti dal mondo del writing, potessero essere portati all’interno di un museo. In particolare, la sfida è stata quella di allestire un numero importante di opere basate sull’utilizzo di documentazione fotografica o video. È abbastanza intuitivo capire che, essendo gli artisti appartenenti a quel tipo di filone, questa documentazione riproduceva in gran parte quelli che normalmente le persone definiscono come “atti vandalici”. In sostanza, circa la metà dello spazio espositivo era occupato da foto e video di treni o muri dipinti senza alcuna autorizzazione. Il fine era anche spingere i visitatori a soffermarsi su quei segni che normalmente incontrano nei tragitti che percorrono, grazie al cambio di prospettiva che il museo garantisce: se un treno dipinto lo vedo in stazione, magari penso solo ai soldi di tasse che mi costerà pulirlo, ma se lo vedo in una mostra di arte contemporanea, sarò spinto a farmi delle domande. Ho insomma cercato di sfruttare la mia posizione di curatore, per sollevare questo tipo di riflessioni. La mostra ha avuto un altro risvolto molto positivo ed interessante, in quanto 2 installazioni fotografiche, sono state acquisite dalla galleria civica e fanno ora parte dell’archivio permanente; alcune foto sono state poi anche utilizzate successivamente in una mostra collettiva; inoltre, per quanto riguarda l’opera “SI”, la galleria non si è limitata ad acquisire la documentazione fotografica, ma addirittura l’originale attraverso una delibera di consiglio comunale, creando un precedente credo davvero interessante: un’opera realizzata senza permesso di un collettivo non ancora premiato da grandi quotazioni di mercato, viene riconosciuta istituzionalmente come di valore artistico poco tempo dopo la sua realizzazione.

Che cosa significa per te la parola creatività?
È un modo di approcciare la realtà ed affrontarne le sfide.

Quando e come hai iniziato ad appassionati di arte e arte urbana? Ormai molti anni fa, affascinato dall’idea di ribellione che mi trasmetteva lo skate, ho iniziato ad avvicinarmi alle “culture di strada” diciamo. Nella mia città graffiti non ce ne erano e anche gli skaters non erano tantissimi ma ero entrato in contatto con alcuni. Inoltre quella scena in Italia era già sviluppata ed uscivano regolarmente riviste che si potevano comprare in edicola. Su quelle pagine ho visto le prime foto di graffiti, ho iniziato a riconoscere poi gli stessi segni sui muri di Grosseto dove andavo in vacanza o a Bologna dove andavo ogni tanto con gli amici. E poi grazie al negozio di dischi “Aaargh”, sempre di Modena, dove acquistavo quando potevo la musica che trasmetteva Radio Antenna 1 Rock Station. Dentro al negozio c’era un pezzo di ShanR, che ho scoperto anni e anni dopo essere Deda/Katzuma… era di un livello spaziale e poterlo studiare dal vivo un vero privilegio in una città quasi totalmente vergine da quel punto di vista. Parliamo del ’93/’94, non c’era internet e ogni più piccolo spunto veniva studiato ed interpretato fino alla nausea. Ricordo ancora quante ore – ORE – ho passato a studiare ossessivamente ogni centimetro della copertina ed ogni secondo dei testi di “Sfida il buio” di DeeMo.

La tua prima volta in un Museo o una Mostra d’Arte… che ricordo ne hai?
Purtroppo essendo un vero “nerd dei graffiti” ed avendo anche molto poco tempo a disposizione, frequento raramente mostre e musei, a fatica riesco ogni tanto ad andare a quelle che davvero mi interessano. Forse la prima volta che ho percepito la potenza delle opere in quel tipo di contesto, è stato in gita scolastica a Parigi, quando visitammo, costretti, tutti i musei più importanti. Ma devo ammettere che nulla mi ha spinto maggiormente ad interessarmi di segni, pittura, arte, performance e fotografia come i graffiti che vedevo sui treni in stazione o fuori al finestrino andando al mare. Quelle esperienze ancora mi accompagnano e continuano ad essermi di enorme stimolo.

Progetti per il futuro.
Continuare a lavorare sul rapporto fra writing, street art, fotografia, mercato ed istituzionalizzazione.

In copertina: Francesco Barbieri pink junction, mixed media on photograpy, 70×100 cm, 2019

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