Festival Circulation(s): un viaggio nella fotografia emergente europea

About the Author: Cristina Biordi

Published On: 5 Aprile 2025

Tempo stimato per la lettura: 26,6 minuti

Il festival Circulation(s), uno dei più attesi eventi dedicati alla fotografia contemporanea in Europa, festeggia la sua 15ª edizione. Quest’anno, il festival avrà luogo dal 5 aprile al 1° giugno 2025 presso il CENTQUATRE-PARIS, un innovativo spazio culturale situato nel cuore della capitale francese.

Creato nel 2011, il festival Circulation(s) si è affermato come il primo festival francese dedicato alla fotografia emergente europea. Da quindici anni, questo evento riunisce artisti all’inizio della loro carriera provenienti da tutta Europa, selezionati da una direzione artistica collettiva composta da sei curatori indipendenti.

In questa edizione del festival 2025, l’Europa viene concepita come un’entità geografica, ma anche come un palcoscenico di complessità sociale e culturale. Di fronte alla crescente affermazione di regimi nazionalisti, il legame tra popolazioni e territori diventa sempre più evidente e necessario. I temi territoriali, che caratterizzano questa edizione, riflettono le transizioni che tutti noi siamo chiamati ad affrontare, sia a livello individuale che collettivo.

Oltre i confini europei, verso territori intimi

Il festival non si limita a rappresentare l’Europa, ma si estende anche a luoghi come il Libano, la Cecenia e la Guadalupa, dove il concetto di territorio si intreccia con la costruzione delle nostre identità e delle nostre domande esistenziali. Quest’anno, Circulation(s) dà voce a diversi artisti franco-caraibici, i quali si riappropriano della narrazione del loro patrimonio culturale e della loro storia. Le opere presentate offrono una mappa in continua evoluzione delle nostre realtà condivise, proponendo un aggiornamento dell’immaginario collettivo.

La quindicesima edizione del festival si distingue anche per l’esplorazione di territori intimi come luoghi di resistenza e sperimentazione di fronte alle violenze sistemiche. Circulation(s) si impegna a rendere visibili e udibili testimonianze e prospettive che contribuiscono a rinnovare le nostre percezioni.

Un festival attento ai nuovi talenti sempre più in crescita

Negli ultimi sei anni, il festival ha messo in luce una scena fotografica europea ancora poco rappresentata. Proseguendo con la stagione dedicata all’Istituto Francese, quest’anno il focus è sulla Lituania. L’impegno di questo paese baltico nell’accoglienza dei rifugiati ucraini non solo omaggia l’ottimo focus dell’anno scorso, ma rappresenta anche un punto di incontro per questioni cruciali relative alla storia, all’attualità e alle prospettive future dell’Europa e del mondo.

In quindici anni, Circulation(s) ha costantemente sostenuto artisti e pubblici, promuovendo apertura mentale e libertà di espressione. Quindici anni di posizioni forti, di scommesse audaci e di crescita continua. Le nostre vittorie sono molteplici e la volontà di creare collegamenti, dare voce ai creatori e interrogare il mondo insieme ci spinge ogni anno a proseguire.

Un’eredità matrilineare: molto di più che un affare di donne

Due fotografe partono dalla relazione con l’eredità ricevuta dalla propria madre, e i legami femminili con le generazioni passate. Due artiste, Beydoun Sama ed Emeline Amétis, offrono prospettive affascinanti e profondamente intime attraverso i loro lavori. Le loro opere esplorano temi come l’identità, il trauma e il legame con la tradizione, creando un ponte tra il passato e il presente.

La diaspora libanese si riunisce intorno alla tavola

Nella Halle, Beydoun Sama, nata nel 1997 e cresciuta a Beirut, è un’artista multidisciplinare attualmente basata a Parigi. Il suo progetto, descritto come un photo-film, rappresenta il risultato di un lavoro iniziato nel 2020, anno in cui ha lasciato il Libano. In quel periodo, Sama si è dedicata a documentare la sua relazione con le figure femminili della sua famiglia: madre, nonna e bisnonna, da cui si è allontanata a causa della difficile situazione del suo paese.

Il matriarcato che ha vissuto è stato costruito attorno a un legame profondo: quello con la cucina. Nel biennio 2022-2023, Sama ha lanciato un appello ai libanesi a Parigi, invitandoli a condividere ricette ereditate. Ha così avuto l’opportunità di entrare nelle loro case, creando un dialogo intimo attorno al cibo e alle storie che esso racchiude. Se la ricetta proveniva dalla madre del narratore, Sama si è recata a casa di quest’ultima per assaporare il piatto e ascoltare la sua versione della storia. Questo scambio culinario ha creato un ponte che ha unito le vite dei partecipanti al progetto, sia che le loro madri fossero in Francia o in Libano.

Sama utilizza vari mezzi espressivi come design, fotografia, tipografia e pittura, attingendo ispirazione dalla vita di strada e dai suoi abitanti. Le sue opere si concentrano su argomenti legati alla cultura visiva, alle cause sociali e ai racconti collettivi, rendendo la sua arte un potente strumento di connessione e riflessione.

Un viaggio visivo tra memoria e identità

L’opera di Emeline Amétis, fotografa franco-caribena, presentata nell’Atelier 5, si colloca all’incrocio tra memoria, identità e il complesso rapporto con le proprie radici. La sua serie Peyi Manman, Au Pays Des Mères nasce da un gesto intimo e significativo: il giorno prima del suo trentesimo compleanno, la madre di Emeline le regala un album che racconta la sua vita, dalle umili origini in Guadeloupe agli anni di gioventù trascorsi in Francia negli anni ’70. Questo racconto fotografico, che si estende fino ai primi anni 2000, diventa un punto di partenza per l’artista, che decide di esplorare il legame con l’arcipelago natale della madre.

Le immagini catturate da Amétis dipingono un paesaggio di ricordi e sentimenti, un territorio di cachettes dove si intrecciano la violenza e l’imprevedibilità della vita. Utilizzando un mix di archivi, tessuti, installazioni e fotografie di ritratti e paesaggi, la sua opera crea una tensione evocativa tra l’immaginario e la realtà, tra la memoria e la perdita. In un contesto migratorio come quello delle Antille, la serie solleva interrogativi profondi sull’eredità culturale: come può l’immaginazione colmare i vuoti lasciati dalla distanza, dall’oblio e dal silenzio?

Peyi Manmannon è solo un viaggio personale, ma un’esplorazione di una storia condivisa da molte famiglie matrilineari delle Antille. Amétis propone una traversata che è al contempo spaziale, storica e spirituale, invitando lo spettatore a riflettere sulle complessità delle identità multiple e sull’eredità di un passato spesso traumatico.

Nata nel 1992, Emeline Amétis si distingue per il suo approccio ibrido di artista-archivista, ponendo interrogativi sui legami con una storia ricca e complessa. La sua installazione tra arte tessile e fotografia è un invito a esplorare le sfumature dell’identità, a confrontarsi con il passato e a trovare nuovi significati nel presente, attraverso un linguaggio visivo che unisce il personale al collettivo, il locale al globale.

Sfida alle convenzioni sociali alla ricerca dell’autodeterminazione

La relazione con il proprio corpo, la propria identità viene affrontata da Anouk Durocher in Alter Ego Fantasy, presentato nell’Atelier 5 e Isabella Madrid Atelier 1.

Corpo, identità e Pirandello

Anouk Durocher, originaria della Francia, è una fotografa e giornalista che esplora le identità e le esperienze ai margini della società. Nata nel 1996 e laureata in scienze politiche a Bruxelles, ha affinato le sue competenze fotografiche a Parigi. La sua serie Alter Ego Fantasy rappresenta un viaggio intimo attraverso la vita di Bissi, un amico non binario e lesbica che rifiuta le norme e celebra la fluidità della propria identità. Una sorta di rappresentazione pirandelliana della “molteplicità” delle personalità e della loro rappresentazione.

Attraverso le sue fotografie, Durocher riesce a catturare la complessità e le contraddizioni di Bissi, creando un dialogo visivo che riflette la ricerca di sé e la transidentità. In questa collaborazione, i due amici artisti non solo documentano la trasformazione personale, ma rendono omaggio all’amicizia come un legame che sfida le convenzioni sociali e sostiene le metamorfosi individuali. Le opere di Bissi, che includono scritti poetici e montaggi digitali, arricchiscono ulteriormente la narrazione visiva, rendendo Alter Ego Fantasy un’opera profonda e significativa.

Una riscoperta dell’identità colombiana

Isabella Madrid, nata nel 1999, è un’artista e fotografa colombiana che vive tra la Francia e la Colombia. La sua formazione accademica include una laurea in arti visive presso la Pontificia Universidad Javeriana di Bogotá e un master in fotografia all’ECAL in Svizzera. Nel suo lavoro, Madrid esplora la sua identità contemporanea attraverso una combinazione di fotografia digitale e analogica.

Nel suo progetto Buena, Bonita y Barata (Buona, carina e a buon prezzo), Isabella affronta le aspettative sociali e culturali che ha dovuto affrontare crescendo in Colombia. Riflessioni personali la portano a confrontarsi con la glorificazione e la sexualizzazione del corpo femminile, sia da parte degli uomini locali che di quelli stranieri. Attraverso la sua arte, Madrid cerca di ribaltare i codici imposti, appropriandosi e reinterpretando simboli legati alla rappresentazione delle donne colombiane. La sua opera diventa quindi un atto di resistenza e di riscrittura delle narrazioni che la riguardano.

Attenti al lupo. L’arte risponde alla violenza

Aubane Filée: Nous sommes légitimes

Nell’Atelier 2, due artiste affrontano il tema della violenza. Da una parte, la belga Aubane Filée affronta un tema di grande rilevanza sociale attraverso la sua installazione multimediale Nous sommes légitimes. Nata nel 2001 a Liège e laureata in fotografia nel 2022, Filée sta continuando la sua formazione nel campo del cinema. La sua opera si concentra sulle conseguenze fisiche e psicologiche che le vittime di violenze sessuali affrontano, portando alla luce il dolore e il trauma spesso trascurati dalla società.

Filée utilizza video e installazioni immersive per rappresentare i diversi stati psicologici vissuti dalle vittime, invitando il pubblico a riflettere su un tema delicato e frequentemente ignorato. Con una narrazione che si distacca dal cliché della vittima che rifiuta gli uomini, l’artista mette in evidenza l’unicità delle esperienze di ciascun individuo, sottolineando l’importanza di dare voce a chi ha subito traumi. La scelta di utilizzare il termine inclusivo fxmme evidenzia la sensibilità di Filée verso le diverse identità di genere e le esperienze di vita.

Cendre e il ciclo lunare

Dall’altra parte, troviamo la francese Cendre, un’artista visiva nata nel 1992 e residente a Saint-Étienne. La sua opera Minuit brûle nasce da un’esperienza personale traumatica: nel 2015, Cendre è stata vittima di un’aggressione omofoba a Bordeaux. Quando ha deciso di denunciare l’accaduto, si è sentita rispondere che la causa era da attribuire alla Luna piena. Questo episodio ha dato vita a un progetto che esplora il trauma, la rabbia e la notte, articolato in tre cicli: il ciclo della luna, quello delle aggressioni omofobe e il ciclo personale dell’artista.

Cendre utilizza una tecnica innovativa e provocatoria, immergendo le sue pellicole nel proprio sangue mestruale per alterarle. Questo processo trasforma le immagini in sopravvissute, simili all’artista stesso, che affronta e resiste alla distruzione. Il progetto è arricchito da 180 risografie che richiamano il numero medio annuale di aggressioni fisiche omofobe registrate in Francia negli ultimi anni, un monito potente e disturbante sulla violenza contro le identità queer.

Con una formazione in ecologia e un approccio autodidatta, Cendre ha esposto il suo lavoro in contesti prestigiosi come spazio SERRA a Milano e il festival Les Nuits photo a Parigi. La sua arte si configura come un atto di resistenza e cura, affrontando temi dolorosi con una sensibilità unica.

Giulia Frigieri e Claudia Fuggetti: due visioni distinte della gioventù e della natura

Il festival presenta, nell’Atelier 1, due fotografe italiane, dagli universi differenti: Generazione Vulcano e Metamorphosis, ognuna rispettivamente con un focus distintivo sulla gioventù e sulla natura.

Generazione Vulcano: l’adolescenza tra eruzioni e libertà

Giulia Frigieri, attiva tra l’Italia, la Francia e il Regno Unito, ha dedicato il suo lavoro a catturare l’essenza dell’adolescenza nelle isole vulcaniche dell’arcipelago delle Eolie, in Sicilia. Il suo progetto Generazione Vulcano, avviato nel 2021, illustra il momento più complesso della vita, l’adolescenza, in un contesto geografico specifico, caratterizzato dall’imprevedibilità e dalla potenza dei vulcani.

Giulia Frigieri utilizza la sua fotografia per mettere in luce come i giovani affrontino la vita con libertà e vitalità, nonostante le incertezze e le tensioni che circondano l’ambiente vulcanico. Contrapponendo la libertà giovanile al bisogno scientifico di controllare e monitorare le eruzioni, l’artista crea un dialogo tra l’incandescenza della gioventù e l’imprevedibilità della natura.

Metamorphosis: una riflessione sulla connessione con la natura

D’altra parte, Claudia Fuggetti, nata a Taranto nel 1993, invita gli spettatori a riconsiderare il loro rapporto con il mondo naturale attraverso il suo progetto Metamorphosis. Diplomata in culture digitali dall’Accademia delle belle arti di Brera, l’artista ha sviluppato un lavoro che esplora l’equilibrio tra realtà e irrealtà, creando mondi alternativi attraverso la fotografia.

Nel suo progetto, gli interventi cromatici nelle fotografie simboleggiano la persistenza della vita, anche in condizioni ambientali difficili. Le vivaci tonalità utilizzate da Claudia Fuggetti non solo evidenziano la bellezza della natura, ma anche le problematiche legate al consumo delle risorse naturali, rivelando una realtà frammentata e limitata. Metamorphosis non è solo un invito a contemplare la bellezza del mondo naturale, ma anche a riconoscere la nostra responsabilità condivisa nella sua protezione, specialmente in un’epoca di sfide ecologiche come l’Antropocene.

Dalle origini dell’odio alla guerra

Nel panorama dell’arte contemporanea, due artisti emergenti, Jakob Ganslmeier & Ana Zibelnik e Artem Humilevskyi, si distinguono per la loro capacità di affrontare tematiche sociali e identitarie attraverso le rispettive opere fotografiche. Mentre Ganslmeier, insieme ad Ana Zibelnik, esplora la glorificazione della figura maschile e le sue implicazioni, Humilevskyi offre una riflessione profonda sull’identità e la comunità, influenzata dagli eventi drammatici della sua patria.

Jakob Ganslmeier & Ana Zibelnik: decriptare il suprematismo maschile

Jakob Ganslmeier (1990, Monaco di Baviera) e Ana Zibelnik (1995, Lubiana) formano un duo artistico che sfida le narrazioni politiche estreme attraverso la fotografia e la videoarte. Il loro recente progetto ruota attorno alla statua Bereitschaft di Arno Breker, simbolo del Terzo Reich, che rappresenta un guerriero pronto alla guerra. Nel 2023, questa statua è diventata un trend su TikTok, simbolo di una mascolinità idealizzata che nasconde sottofondo fascisti. Ganslmeier e Zibelnik, attraverso una scultura video di 4 metri, mettono in luce come queste tendenze non solo promuovano una visione distorta della mascolinità, ma alimentino anche pratiche fisiche estreme, come il bones-smashing, per raggiungere un ideale di bellezza maschile.

Artem Humilevskyi: nessun luogo è sicuro

D’altro canto, Artem Humilevskyi (1986, Ucraina) ha dato vita alla serie Roots durante l’invasione della sua patria. Le sue fotografie evocano un forte senso di identità e appartenenza, rivelando come la guerra possa risvegliare un legame profondo con le proprie radici. Artem Humilevskyi, attraverso il suo lavoro, invita a riflettere sull’individuo come parte di una comunità, proponendo una visione dell’identità che trascende il solo concetto di nazionalità. Le sue immagini, cariche di simbolismo spirituale, si intrecciano con il vissuto collettivo, offrendo uno spaccato di resilienza ed empatia in un periodo di crisi.

Questi artisti, esposti nell’Atelier 3, sebbene con approcci e tematiche diverse, mirano a sensibilizzare il pubblico su questioni sociali urgenti. Ganslmeier e Zibelnik mettono in discussione le ideologie che glorificano la violenza e l’estetica maschile, mentre Humilevskyi esplora la complessità dell’identità in tempi di conflitto. Le loro opere, esposte in importanti istituzioni come il FOAM Museum di Amsterdam e il Fotomuseum Den Haag, dimostrano come l’arte possa fungere da strumento di riflessione critica e di cambiamento sociale. Le due installazioni offrono due prospettive affascinanti e necessarie sul nostro tempo, invitando il pubblico a riflettere su come le immagini e le narrazioni influenzino la nostra comprensione di identità, comunità e ideologie.

L’arte della fotografia: due visioni a confronto

La fotografia è un linguaggio universale che consente di esplorare e raccontare storie attraverso immagini. Due fotografi contemporanei, il polacco Tomasz Kawecki e la spagnola Manuela Lorente, offrono due prospettive affascinanti e distinte sul mondo, ognuno con il proprio stile e tema unico.

L’oscurità e le paure primordiali che ci circondano

Presentata nell’Atelier 2, quasi come un solo show, la serie Praise of Shadow di Tomasz Kawecki esplora il concetto di ombra e il suo legame con il mondo naturale e le credenze antiche. Ambientato nei dintorni di Nowa Ruda, una delle aree più inquinate della Polonia, Kawecki si avventura di notte, illuminato solo dalla luce della sua lampada tascabile, per scoprire organismi ed elementi naturali che si nascondono nell’oscurità. Le sue fotografie rivelano un universo inquietante e mistico, dove funghi e muffe evocano una paura primordiale delle forze incontrollabili della natura. Questo approccio riflette una riflessione profonda: non è forse questa paura ancestrale che ha spinto l’umanità a cercare protezione e civilizzazione?

Nato nel 1993, Tomasz Kawecki si definisce un artista visivo le cui opere sono ispirate ai fenomeni naturali. La sua pratica è una documentazione soggettiva che indaga le intersezioni tra esperienza personale e narrazioni culturali, con un particolare interesse per leggende e miti. Grazie al supporto dell’Istituto Polacco di Parigi, il suo lavoro continua a suscitare riflessioni sulle ombre che ci circondano e sulla loro importanza nel nostro mondo.

He Plays the Music, We Dance di Manuela Lorente

D’altro canto, Manuela Lorente, artista spagnola nata nel 1991, si immerge nella narrazione attraverso la fotografia documentaria, creando romanzi fotografici che mescolano realtà e finzione. Manuela infatti voleva diventare giornalista, realizzare reportage, ma è attraverso la fotografia che trova la libertà di creare i propri documentari. D’inventare delle storie e di fare un’inchiesta giornalistica.

Nella sua opera He Plays the Music, We Dance, Lorente racconta le avventure di due fratelli, delinquenti aspiranti a diventare protagonisti dei film di gangster che ammirano. Questa narrazione si snoda tra tentativi di intimidire i vicini e un viaggio in Galizia in cerca di un importante bottino di reliquie francesi. Tuttavia, i due si troveranno coinvolti in un imprevisto che cambia il corso della loro avventura, finendo con un carico di cruches piuttosto che di tesori.

Il lavoro di Manuela Lorente è caratterizzato da un forte legame con la sua città, Madrid, e dalla ricerca di elementi di costumbrismo, cultura popolare e identità. Le sue immagini raccontano storie di vita quotidiana, relazioni personali e tradizioni, creando una fusione tra il reale e l’immaginario.

Lorente ci intrattiene con storie di vita e sogni di grandezza. Insieme, i loro lavori si intrecciano in un affascinante dialogo visivo che ci invita a esplorare la complessità della nostra esistenza attraverso l’arte della fotografia.

Denti, croci tra memoria e identità culturale

Un’eredità familiare Lucija Rosc, nata nel 1995 e residente a Ljubljana, Slovenia, ha dedicato la sua arte a esplorare le dinamiche familiari e la memoria attraverso il suo progetto Babiščina / Heirloom (Eredità). La serie prende spunto da un episodio della vita di sua nonna, Marija Kobale (Mica), che negli anni ’60 si recò da un dentista per sostituire un dente danneggiato con uno d’oro. Decenni dopo, Lucija ha fuso quell’oro per riparare a sua volta un dente deteriorato. Questo gesto diventa un simbolo potente di successione e di legame intergenerazionale.

Il fulcro del progetto è un film documentario performativo che segue il viaggio della dentatura, da Mica a Lucija, trasformando la dentatura in un totem simbolico che rappresenta il passaggio dell’eredità. Con un master in comunicazione visiva e una candidatura per il premio OHO 2024, Lucija combina investigazione e gioco, attingendo ai suoi ricordi d’infanzia, alle archiviazioni familiari e all’ambiente in cui è cresciuta. La sua opera è stata esposta in tutta Europa e negli Stati Uniti, ed è rappresentata dalla Galerija Fotografija in Slovenia.

Il cammino della croce: viaggio nel quotidiano bielorusso

Dall’altra parte, Lesia Pčolka, nata nel 1989, è un’artista bielorussa che vive tra Berlino e Bielsk Podlaski, in Polonia. Il suo lavoro si concentra sulla memoria collettiva e su come i racconti storici ufficiali si intrecciano con le storie non documentate del passato presovietico e della vita quotidiana. Pčolka è anche la fondatrice di VEHA Archive, un’iniziativa dedicata alla conservazione della memoria culturale.

Il suo progetto Roadside Objects trae ispirazione dal libro Le croci tradizionali biellorusse dell’etnografo Mikhail Romanyuk. Sebbene l’artista non sia riuscita a rintracciare le croci protettive menzionate, il suo lavoro riflette un’interpretazione contemporanea di questi simboli. Le nuove croci in metallo, decorate dai residenti con nastri e fiori vivaci, si distaccano dal loro significato originale, diventando simboli di orgoglio LGBTQIA+ piuttosto che di un passato patriarcale. Pčolka mostra queste croci come sospese nel paesaggio, evidenziando la loro continua presenza e riproduzione attraverso una pratica sociale vivace e iterativa.

Memoria, libertà e comunità

Nella Halle, due artiste Wendie Zahibo e Ola Skowrońska esplorano temi legati alla memoria, alla identità e alle dinamiche culturali in un mondo globalizzato. Sebbene le due opere possiedano stili e approcci differenti, entrambe propongono una riflessione profonda sull’esperienza umana e sulle sue radici.

Wendie Zahibo: masonn e la riflessione sull’habitat e la memoria afrodiasporica

Il progetto masonn di Wendie Zahibo esplora l’habitat vernacolare e il realismo mistico di quattro territori dell’Atlantico nero: Guadeloupa, Brasile, Costa d’Avorio e Stati Uniti. L’artista francese si concentra sulla creazione di spazi abitativi e culturali unici sviluppati dalle popolazioni afrodiscendenti, che riflettono la loro storia, memoria collettiva, movimento e immaginario.

Utilizzando la fotografia e il collage, Zahibo indaga le nozioni di memoria, libertà e comunità, esaminando le archivi dinamiche delle storie afrodiasporiche. Il suo lavoro mira a creare nuovi spazi utopici di incontro e riflessione, rivelando la continuità culturale e le identità delle diaspore nere. Nata nel 1991, Wendie Zahibo è un’artista interdisciplinare che intreccia arte visiva, fotografia e poesia, invitando a un dialogo tra diverse realtà culturali. Ha esposto in paesi come la Corea del Sud, il Brasile e il Senegal.

Voci di resilienza: un nome e un destino in comune

Dall’altro lato, Ola Skowrońska, nata nel 2001 in Polonia, affronta temi di migrazione e identità nel suo progetto Heda. La Cecenia, una nazione lacerata da conflitti, ha costretto molti dei suoi abitanti a fuggire, creando una generazione di giovani donne che si trovano intrappolate tra due culture. Ola ha iniziato questo progetto ispirata dalla sua amicizia con una giovane donna cecena a Mosca, con la quale non ha potuto più incontrarsi a causa della situazione politica.

Attraverso il suo lavoro, Skowrońska ha fotografato quattro giovani donne cecene che portano lo stesso nome della sua amica, creando un racconto multidimensionale che esplora la migrazione, il trauma, l’appartenenza e l’amicizia. La sua pratica artistica si concentra su progetti a lungo termine, radicati nell’osservazione di fenomeni storici e sociali. Laureata presso il dipartimento fotografico dell’Accademia di Cinema di Łódź, Ola utilizza la fotografia, il film e la performance per dare voce a esperienze spesso trascurate.

Due visioni fotografiche sulla società contemporanea

Nel contesto attuale della fotografia contemporanea, due artisti emergenti, Valentin Valette e Wang Tianyu, offrono prospettive uniche e profonde sulle dinamiche sociali, politiche ed economiche che modellano i loro rispettivi mondi. Pur avendo approcci e temi distinti, entrambi i lavori esplorano le sfide legate all’identità, alla memoria e alla visibilità, pur mantenendo un impegno critico nei confronti delle strutture di potere.

Valentin Valette: Ashes of the Arabian’s Pearl

Atelier 3 Valentin Valette, fotografo e antropologo visivo francese di origine algerina, affronta nel suo progetto Ashes of the Arabian’s Pearl (2021-2023) il periodo di transizione che ha segnato il passaggio dal regno del sultano Qaboos al nuovo sultano Haitham in Oman. L’opera si concentra sulle nuove traiettorie economiche e sociali del Sultanato, esplorando i cambiamenti strutturali legati alla necessità urgente di diversificare l’economia, in particolare a causa dell’esaurirsi delle risorse petrolifere e gaziere.

Valette utilizza un approccio multidisciplinare che combina fotografie in medio formato e l’analisi degli archivi storici, mirando a documentare la lotta di un paese che si trova di fronte a nuove sfide. La sua attenzione si rivolge, in particolare, ai lavoratori migranti, una componente essenziale nella crescita economica del paese, nonché ai loro datori di lavoro. Il fotografo impiega inoltre il concetto di tomason, elaborato dall’artista giapponese Genpei Akasegawa, per riflettere sui resti del passato e sulla memoria collettiva che permea la società omanita. L’opera si distingue per il suo impegno a dare visibilità a quelle storie che spesso rimangono nell’ombra, in un contesto di rapida modernizzazione e trasformazione.

Wang Tianyu: Hiding and Seeking

Se Valette si concentra su dinamiche economiche e politiche in un contesto internazionale, Wang Tianyu, giovane artista cinese, nell’Atelier 1,porta l’attenzione su un tema universale: la violenza e l’oppressione invisibile delle donne all’interno della struttura familiare. Il suo lavoro Hiding and Seeking (Nascondino) esplora attraverso performance e iconografia le aspettative imposte alle donne dalla società patriarcale. La pratica fotografica di Tianyu si fonde con la performance, utilizzando il corpo, i gesti e gli oggetti quotidiani per decostruire le posizioni forzate che le donne sono costrette ad assumere nella vita di tutti i giorni.

La sua ricerca riflette sulla relazione tra visione e cognizione, dove il corpo femminile diventa una lente politica attraverso la quale esplorare le cicatrici lasciate dalle esperienze traumatiche. Con una forte componente autobiografica, Tianyu reinterpreta la sua esperienza personale come una critica alla disciplina domestica imposta, invitando lo spettatore a riflettere sulla natura del potere e del controllo all’interno della famiglia e delle strutture sociali più ampie.

Rendere visibile ciò che è nascosto

Sebbene le tematiche e i contesti siano molto diversi, entrambe le opere di Valette e Tianyu offrono una riflessione profonda su ciò che è visibile e ciò che è nascosto. Valette, con la sua indagine sulle trasformazioni economiche e sociali in Oman, pone l’accento sulla necessità di visibilità per i lavoratori migranti e sull’eredità di un passato che sta lentamente svanendo. D’altro canto, Tianyu usa la fotografia e la performance per mettere in luce le invisibili sofferenze delle donne, dando voce a chi spesso rimane inascoltato.

In un mondo in cui le immagini hanno il potere di raccontare storie e di sfidare le convenzioni, Ashes of the Arabian’s Pearl e Hiding and Seeking si pongono come opere che, pur partendo da esperienze molto diverse, si interrogano sulla stessa domanda: come possiamo dare visibilità a ciò che è nascosto? La risposta, forse, risiede nell’arte stessa, che è capace di rendere visibili le ombre della nostra società e di sollevare domande urgenti sulla giustizia, la memoria e il cambiamento.

Fotografia e Memoria: quattro artisti lituani esplorano temi di trauma, identità e disinformazione

Quattro fotografi lituani, attraverso approcci differenti e distinti, affrontano tematiche profonde legate alla memoria, alla perdita, alla migrazione e alla disinformazione. I loro lavori offrono uno spunto di riflessione sulle sfide contemporanee e sulle difficoltà legate all’identità e alla realtà sociale, utilizzando la fotografia come mezzo di espressione e indagine.

Questi quattro fotografi lituani, pur trattando temi diversi, utilizzano la fotografia come strumento per esplorare e raccontare storie di trauma, dislocazione, perdita e disinformazione. I loro lavori interrogano la verità delle immagini, la memoria collettiva e individuale e le difficoltà della migrazione, stimolando una riflessione profonda sulla realtà contemporanea e sulle sfide che la nostra società deve affrontare. Ogni fotografo, attraverso il proprio approccio unico, ci invita a confrontarci con le ombre della nostra esistenza e a considerare le complesse dinamiche che plasmano il nostro mondo.

Ieva Baltaduonyte: Uprooted

Ieva Baltaduonyte, con il suo progetto Uprooted, racconta la dolorosa esperienza delle donne e delle adolescenti ucraine costrette a fuggire dalla guerra in Ucraina, che ora risiedono a Kaunas, in Lituania. La serie fotografica esplora la resilienza di queste donne di fronte al trauma del dislocamento e alla perdita della loro casa. Le immagini catturano la difficile condizione psicologica dei rifugiati, con particolare attenzione ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico (SSPT), che colpisce una parte significativa della popolazione migrante. Baltaduonyte, fotografa lituana, attinge dalla sua esperienza personale di esilio per esaminare le cicatrici psicologiche lasciate dalla migrazione forzata.

Agnė Gintalaitė: Chasing Digital Truth

Il progetto Chasing Digital Truth di Agnė Gintalaitė affronta il ruolo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale (IA) nella creazione di immagini, riflettendo sulla fiducia che riponiamo nelle fotografie in bianco e nero. L’artista lituana esplora come l’IA possa generare immagini apparentemente vere, ma con errori che rivelano la natura artificiale di queste rappresentazioni. La sua ricerca mette in discussione la veridicità delle immagini digitali, affrontando temi di disinformazione e manipolazione delle immagini. Gintalaitė utilizza l’IA per creare una sintesi tra l’umano e la macchina, sfidando le convenzioni sulla rappresentazione visiva della realtà.

Visvaldas Morkevičius: I Want to Tell You Something

Visvaldas Morkevičius, con il progetto I Want to Tell You Something, esplora il tema della perdita e del ricordo attraverso immagini evocative che mescolano la presenza e l’assenza. Le sue fotografie, che riflettono sull’interazione tra il passato e il futuro, creano un’atmosfera sospesa tra le ombre e la luce. L’artista lituano affronta il dolore del distacco e l’incertezza di andare avanti dopo una perdita, creando immagini che diventano lettere a se stessi sulla necessità di accettare e vivere con il ricordo. Morkevičius indaga le dimensioni emozionali e psicologiche della vita moderna, proponendo una riflessione profonda sulla fragilità dell’esistenza.

Paulius Petraitis: Enjoy the Now

Enjoy the Now di Paulius Petraitis si concentra sulle strategie mediatiche utilizzate per deumanizzare i migranti che entrano in Lituania dal Bielorussia durante l’estate del 2021. L’artista raccoglie immagini di giornali che mostrano i volti dei migranti pixellati, rendendo invisibili le loro identità e cancellando la loro umanità. Petraitis reinterpreta queste immagini come sfondo di paesaggi lituani, cercando tracce di una presenza umana che è stata volutamente eliminata dalla narrativa mediatica. Il suo lavoro esplora le implicazioni politiche e sociali della disinformazione e della manipolazione dell’immagine, mettendo in luce il processo di cancellazione dell’identità e dell’appartenenza.

 

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In questa edizione del festival 2025, l’Europa viene concepita come un’entità geografica, ma anche come un palcoscenico di complessità sociale e culturale. Di fronte alla crescente affermazione di regimi nazionalisti, il legame tra popolazioni e territori diventa sempre più evidente e necessario. I temi territoriali, che caratterizzano questa edizione, riflettono le transizioni che tutti noi siamo chiamati ad affrontare, sia a livello individuale che collettivo.

Oltre i confini europei, verso territori intimi

Il festival non si limita a rappresentare l’Europa, ma si estende anche a luoghi come il Libano, la Cecenia e la Guadalupa, dove il concetto di territorio si intreccia con la costruzione delle nostre identità e delle nostre domande esistenziali. Quest’anno, Circulation(s) dà voce a diversi artisti franco-caraibici, i quali si riappropriano della narrazione del loro patrimonio culturale e della loro storia. Le opere presentate offrono una mappa in continua evoluzione delle nostre realtà condivise, proponendo un aggiornamento dell’immaginario collettivo.

La quindicesima edizione del festival si distingue anche per l’esplorazione di territori intimi come luoghi di resistenza e sperimentazione di fronte alle violenze sistemiche. Circulation(s) si impegna a rendere visibili e udibili testimonianze e prospettive che contribuiscono a rinnovare le nostre percezioni.

Un festival attento ai nuovi talenti sempre più in crescita

Negli ultimi sei anni, il festival ha messo in luce una scena fotografica europea ancora poco rappresentata. Proseguendo con la stagione dedicata all’Istituto Francese, quest’anno il focus è sulla Lituania. L’impegno di questo paese baltico nell’accoglienza dei rifugiati ucraini non solo omaggia l’ottimo focus dell’anno scorso, ma rappresenta anche un punto di incontro per questioni cruciali relative alla storia, all’attualità e alle prospettive future dell’Europa e del mondo.

In quindici anni, Circulation(s) ha costantemente sostenuto artisti e pubblici, promuovendo apertura mentale e libertà di espressione. Quindici anni di posizioni forti, di scommesse audaci e di crescita continua. Le nostre vittorie sono molteplici e la volontà di creare collegamenti, dare voce ai creatori e interrogare il mondo insieme ci spinge ogni anno a proseguire.

Un’eredità matrilineare: molto di più che un affare di donne

Due fotografe partono dalla relazione con l’eredità ricevuta dalla propria madre, e i legami femminili con le generazioni passate. Due artiste, Beydoun Sama ed Emeline Amétis, offrono prospettive affascinanti e profondamente intime attraverso i loro lavori. Le loro opere esplorano temi come l’identità, il trauma e il legame con la tradizione, creando un ponte tra il passato e il presente.

La diaspora libanese si riunisce intorno alla tavola

Nella Halle, Beydoun Sama, nata nel 1997 e cresciuta a Beirut, è un’artista multidisciplinare attualmente basata a Parigi. Il suo progetto, descritto come un photo-film, rappresenta il risultato di un lavoro iniziato nel 2020, anno in cui ha lasciato il Libano. In quel periodo, Sama si è dedicata a documentare la sua relazione con le figure femminili della sua famiglia: madre, nonna e bisnonna, da cui si è allontanata a causa della difficile situazione del suo paese.

Il matriarcato che ha vissuto è stato costruito attorno a un legame profondo: quello con la cucina. Nel biennio 2022-2023, Sama ha lanciato un appello ai libanesi a Parigi, invitandoli a condividere ricette ereditate. Ha così avuto l’opportunità di entrare nelle loro case, creando un dialogo intimo attorno al cibo e alle storie che esso racchiude. Se la ricetta proveniva dalla madre del narratore, Sama si è recata a casa di quest’ultima per assaporare il piatto e ascoltare la sua versione della storia. Questo scambio culinario ha creato un ponte che ha unito le vite dei partecipanti al progetto, sia che le loro madri fossero in Francia o in Libano.

Sama utilizza vari mezzi espressivi come design, fotografia, tipografia e pittura, attingendo ispirazione dalla vita di strada e dai suoi abitanti. Le sue opere si concentrano su argomenti legati alla cultura visiva, alle cause sociali e ai racconti collettivi, rendendo la sua arte un potente strumento di connessione e riflessione.

Un viaggio visivo tra memoria e identità

L’opera di Emeline Amétis, fotografa franco-caribena, presentata nell’Atelier 5, si colloca all’incrocio tra memoria, identità e il complesso rapporto con le proprie radici. La sua serie Peyi Manman, Au Pays Des Mères nasce da un gesto intimo e significativo: il giorno prima del suo trentesimo compleanno, la madre di Emeline le regala un album che racconta la sua vita, dalle umili origini in Guadeloupe agli anni di gioventù trascorsi in Francia negli anni ’70. Questo racconto fotografico, che si estende fino ai primi anni 2000, diventa un punto di partenza per l’artista, che decide di esplorare il legame con l’arcipelago natale della madre.

Le immagini catturate da Amétis dipingono un paesaggio di ricordi e sentimenti, un territorio di cachettes dove si intrecciano la violenza e l’imprevedibilità della vita. Utilizzando un mix di archivi, tessuti, installazioni e fotografie di ritratti e paesaggi, la sua opera crea una tensione evocativa tra l’immaginario e la realtà, tra la memoria e la perdita. In un contesto migratorio come quello delle Antille, la serie solleva interrogativi profondi sull’eredità culturale: come può l’immaginazione colmare i vuoti lasciati dalla distanza, dall’oblio e dal silenzio?

Peyi Manmannon è solo un viaggio personale, ma un’esplorazione di una storia condivisa da molte famiglie matrilineari delle Antille. Amétis propone una traversata che è al contempo spaziale, storica e spirituale, invitando lo spettatore a riflettere sulle complessità delle identità multiple e sull’eredità di un passato spesso traumatico.

Nata nel 1992, Emeline Amétis si distingue per il suo approccio ibrido di artista-archivista, ponendo interrogativi sui legami con una storia ricca e complessa. La sua installazione tra arte tessile e fotografia è un invito a esplorare le sfumature dell’identità, a confrontarsi con il passato e a trovare nuovi significati nel presente, attraverso un linguaggio visivo che unisce il personale al collettivo, il locale al globale.

Sfida alle convenzioni sociali alla ricerca dell’autodeterminazione

La relazione con il proprio corpo, la propria identità viene affrontata da Anouk Durocher in Alter Ego Fantasy, presentato nell’Atelier 5 e Isabella Madrid Atelier 1.

Corpo, identità e Pirandello

Anouk Durocher, originaria della Francia, è una fotografa e giornalista che esplora le identità e le esperienze ai margini della società. Nata nel 1996 e laureata in scienze politiche a Bruxelles, ha affinato le sue competenze fotografiche a Parigi. La sua serie Alter Ego Fantasy rappresenta un viaggio intimo attraverso la vita di Bissi, un amico non binario e lesbica che rifiuta le norme e celebra la fluidità della propria identità. Una sorta di rappresentazione pirandelliana della “molteplicità” delle personalità e della loro rappresentazione.

Attraverso le sue fotografie, Durocher riesce a catturare la complessità e le contraddizioni di Bissi, creando un dialogo visivo che riflette la ricerca di sé e la transidentità. In questa collaborazione, i due amici artisti non solo documentano la trasformazione personale, ma rendono omaggio all’amicizia come un legame che sfida le convenzioni sociali e sostiene le metamorfosi individuali. Le opere di Bissi, che includono scritti poetici e montaggi digitali, arricchiscono ulteriormente la narrazione visiva, rendendo Alter Ego Fantasy un’opera profonda e significativa.

Una riscoperta dell’identità colombiana

Isabella Madrid, nata nel 1999, è un’artista e fotografa colombiana che vive tra la Francia e la Colombia. La sua formazione accademica include una laurea in arti visive presso la Pontificia Universidad Javeriana di Bogotá e un master in fotografia all’ECAL in Svizzera. Nel suo lavoro, Madrid esplora la sua identità contemporanea attraverso una combinazione di fotografia digitale e analogica.

Nel suo progetto Buena, Bonita y Barata (Buona, carina e a buon prezzo), Isabella affronta le aspettative sociali e culturali che ha dovuto affrontare crescendo in Colombia. Riflessioni personali la portano a confrontarsi con la glorificazione e la sexualizzazione del corpo femminile, sia da parte degli uomini locali che di quelli stranieri. Attraverso la sua arte, Madrid cerca di ribaltare i codici imposti, appropriandosi e reinterpretando simboli legati alla rappresentazione delle donne colombiane. La sua opera diventa quindi un atto di resistenza e di riscrittura delle narrazioni che la riguardano.

Attenti al lupo. L’arte risponde alla violenza

Aubane Filée: Nous sommes légitimes

Nell’Atelier 2, due artiste affrontano il tema della violenza. Da una parte, la belga Aubane Filée affronta un tema di grande rilevanza sociale attraverso la sua installazione multimediale Nous sommes légitimes. Nata nel 2001 a Liège e laureata in fotografia nel 2022, Filée sta continuando la sua formazione nel campo del cinema. La sua opera si concentra sulle conseguenze fisiche e psicologiche che le vittime di violenze sessuali affrontano, portando alla luce il dolore e il trauma spesso trascurati dalla società.

Filée utilizza video e installazioni immersive per rappresentare i diversi stati psicologici vissuti dalle vittime, invitando il pubblico a riflettere su un tema delicato e frequentemente ignorato. Con una narrazione che si distacca dal cliché della vittima che rifiuta gli uomini, l’artista mette in evidenza l’unicità delle esperienze di ciascun individuo, sottolineando l’importanza di dare voce a chi ha subito traumi. La scelta di utilizzare il termine inclusivo fxmme evidenzia la sensibilità di Filée verso le diverse identità di genere e le esperienze di vita.

Cendre e il ciclo lunare

Dall’altra parte, troviamo la francese Cendre, un’artista visiva nata nel 1992 e residente a Saint-Étienne. La sua opera Minuit brûle nasce da un’esperienza personale traumatica: nel 2015, Cendre è stata vittima di un’aggressione omofoba a Bordeaux. Quando ha deciso di denunciare l’accaduto, si è sentita rispondere che la causa era da attribuire alla Luna piena. Questo episodio ha dato vita a un progetto che esplora il trauma, la rabbia e la notte, articolato in tre cicli: il ciclo della luna, quello delle aggressioni omofobe e il ciclo personale dell’artista.

Cendre utilizza una tecnica innovativa e provocatoria, immergendo le sue pellicole nel proprio sangue mestruale per alterarle. Questo processo trasforma le immagini in sopravvissute, simili all’artista stesso, che affronta e resiste alla distruzione. Il progetto è arricchito da 180 risografie che richiamano il numero medio annuale di aggressioni fisiche omofobe registrate in Francia negli ultimi anni, un monito potente e disturbante sulla violenza contro le identità queer.

Con una formazione in ecologia e un approccio autodidatta, Cendre ha esposto il suo lavoro in contesti prestigiosi come spazio SERRA a Milano e il festival Les Nuits photo a Parigi. La sua arte si configura come un atto di resistenza e cura, affrontando temi dolorosi con una sensibilità unica.

Giulia Frigieri e Claudia Fuggetti: due visioni distinte della gioventù e della natura

Il festival presenta, nell’Atelier 1, due fotografe italiane, dagli universi differenti: Generazione Vulcano e Metamorphosis, ognuna rispettivamente con un focus distintivo sulla gioventù e sulla natura.

Generazione Vulcano: l’adolescenza tra eruzioni e libertà

Giulia Frigieri, attiva tra l’Italia, la Francia e il Regno Unito, ha dedicato il suo lavoro a catturare l’essenza dell’adolescenza nelle isole vulcaniche dell’arcipelago delle Eolie, in Sicilia. Il suo progetto Generazione Vulcano, avviato nel 2021, illustra il momento più complesso della vita, l’adolescenza, in un contesto geografico specifico, caratterizzato dall’imprevedibilità e dalla potenza dei vulcani.

Giulia Frigieri utilizza la sua fotografia per mettere in luce come i giovani affrontino la vita con libertà e vitalità, nonostante le incertezze e le tensioni che circondano l’ambiente vulcanico. Contrapponendo la libertà giovanile al bisogno scientifico di controllare e monitorare le eruzioni, l’artista crea un dialogo tra l’incandescenza della gioventù e l’imprevedibilità della natura.

Metamorphosis: una riflessione sulla connessione con la natura

D’altra parte, Claudia Fuggetti, nata a Taranto nel 1993, invita gli spettatori a riconsiderare il loro rapporto con il mondo naturale attraverso il suo progetto Metamorphosis. Diplomata in culture digitali dall’Accademia delle belle arti di Brera, l’artista ha sviluppato un lavoro che esplora l’equilibrio tra realtà e irrealtà, creando mondi alternativi attraverso la fotografia.

Nel suo progetto, gli interventi cromatici nelle fotografie simboleggiano la persistenza della vita, anche in condizioni ambientali difficili. Le vivaci tonalità utilizzate da Claudia Fuggetti non solo evidenziano la bellezza della natura, ma anche le problematiche legate al consumo delle risorse naturali, rivelando una realtà frammentata e limitata. Metamorphosis non è solo un invito a contemplare la bellezza del mondo naturale, ma anche a riconoscere la nostra responsabilità condivisa nella sua protezione, specialmente in un’epoca di sfide ecologiche come l’Antropocene.

Dalle origini dell’odio alla guerra

Nel panorama dell’arte contemporanea, due artisti emergenti, Jakob Ganslmeier & Ana Zibelnik e Artem Humilevskyi, si distinguono per la loro capacità di affrontare tematiche sociali e identitarie attraverso le rispettive opere fotografiche. Mentre Ganslmeier, insieme ad Ana Zibelnik, esplora la glorificazione della figura maschile e le sue implicazioni, Humilevskyi offre una riflessione profonda sull’identità e la comunità, influenzata dagli eventi drammatici della sua patria.

Jakob Ganslmeier & Ana Zibelnik: decriptare il suprematismo maschile

Jakob Ganslmeier (1990, Monaco di Baviera) e Ana Zibelnik (1995, Lubiana) formano un duo artistico che sfida le narrazioni politiche estreme attraverso la fotografia e la videoarte. Il loro recente progetto ruota attorno alla statua Bereitschaft di Arno Breker, simbolo del Terzo Reich, che rappresenta un guerriero pronto alla guerra. Nel 2023, questa statua è diventata un trend su TikTok, simbolo di una mascolinità idealizzata che nasconde sottofondo fascisti. Ganslmeier e Zibelnik, attraverso una scultura video di 4 metri, mettono in luce come queste tendenze non solo promuovano una visione distorta della mascolinità, ma alimentino anche pratiche fisiche estreme, come il bones-smashing, per raggiungere un ideale di bellezza maschile.

Artem Humilevskyi: nessun luogo è sicuro

D’altro canto, Artem Humilevskyi (1986, Ucraina) ha dato vita alla serie Roots durante l’invasione della sua patria. Le sue fotografie evocano un forte senso di identità e appartenenza, rivelando come la guerra possa risvegliare un legame profondo con le proprie radici. Artem Humilevskyi, attraverso il suo lavoro, invita a riflettere sull’individuo come parte di una comunità, proponendo una visione dell’identità che trascende il solo concetto di nazionalità. Le sue immagini, cariche di simbolismo spirituale, si intrecciano con il vissuto collettivo, offrendo uno spaccato di resilienza ed empatia in un periodo di crisi.

Questi artisti, esposti nell’Atelier 3, sebbene con approcci e tematiche diverse, mirano a sensibilizzare il pubblico su questioni sociali urgenti. Ganslmeier e Zibelnik mettono in discussione le ideologie che glorificano la violenza e l’estetica maschile, mentre Humilevskyi esplora la complessità dell’identità in tempi di conflitto. Le loro opere, esposte in importanti istituzioni come il FOAM Museum di Amsterdam e il Fotomuseum Den Haag, dimostrano come l’arte possa fungere da strumento di riflessione critica e di cambiamento sociale. Le due installazioni offrono due prospettive affascinanti e necessarie sul nostro tempo, invitando il pubblico a riflettere su come le immagini e le narrazioni influenzino la nostra comprensione di identità, comunità e ideologie.

L’arte della fotografia: due visioni a confronto

La fotografia è un linguaggio universale che consente di esplorare e raccontare storie attraverso immagini. Due fotografi contemporanei, il polacco Tomasz Kawecki e la spagnola Manuela Lorente, offrono due prospettive affascinanti e distinte sul mondo, ognuno con il proprio stile e tema unico.

L’oscurità e le paure primordiali che ci circondano

Presentata nell’Atelier 2, quasi come un solo show, la serie Praise of Shadow di Tomasz Kawecki esplora il concetto di ombra e il suo legame con il mondo naturale e le credenze antiche. Ambientato nei dintorni di Nowa Ruda, una delle aree più inquinate della Polonia, Kawecki si avventura di notte, illuminato solo dalla luce della sua lampada tascabile, per scoprire organismi ed elementi naturali che si nascondono nell’oscurità. Le sue fotografie rivelano un universo inquietante e mistico, dove funghi e muffe evocano una paura primordiale delle forze incontrollabili della natura. Questo approccio riflette una riflessione profonda: non è forse questa paura ancestrale che ha spinto l’umanità a cercare protezione e civilizzazione?

Nato nel 1993, Tomasz Kawecki si definisce un artista visivo le cui opere sono ispirate ai fenomeni naturali. La sua pratica è una documentazione soggettiva che indaga le intersezioni tra esperienza personale e narrazioni culturali, con un particolare interesse per leggende e miti. Grazie al supporto dell’Istituto Polacco di Parigi, il suo lavoro continua a suscitare riflessioni sulle ombre che ci circondano e sulla loro importanza nel nostro mondo.

He Plays the Music, We Dance di Manuela Lorente

D’altro canto, Manuela Lorente, artista spagnola nata nel 1991, si immerge nella narrazione attraverso la fotografia documentaria, creando romanzi fotografici che mescolano realtà e finzione. Manuela infatti voleva diventare giornalista, realizzare reportage, ma è attraverso la fotografia che trova la libertà di creare i propri documentari. D’inventare delle storie e di fare un’inchiesta giornalistica.

Nella sua opera He Plays the Music, We Dance, Lorente racconta le avventure di due fratelli, delinquenti aspiranti a diventare protagonisti dei film di gangster che ammirano. Questa narrazione si snoda tra tentativi di intimidire i vicini e un viaggio in Galizia in cerca di un importante bottino di reliquie francesi. Tuttavia, i due si troveranno coinvolti in un imprevisto che cambia il corso della loro avventura, finendo con un carico di cruches piuttosto che di tesori.

Il lavoro di Manuela Lorente è caratterizzato da un forte legame con la sua città, Madrid, e dalla ricerca di elementi di costumbrismo, cultura popolare e identità. Le sue immagini raccontano storie di vita quotidiana, relazioni personali e tradizioni, creando una fusione tra il reale e l’immaginario.

Lorente ci intrattiene con storie di vita e sogni di grandezza. Insieme, i loro lavori si intrecciano in un affascinante dialogo visivo che ci invita a esplorare la complessità della nostra esistenza attraverso l’arte della fotografia.

Denti, croci tra memoria e identità culturale

Un’eredità familiare Lucija Rosc, nata nel 1995 e residente a Ljubljana, Slovenia, ha dedicato la sua arte a esplorare le dinamiche familiari e la memoria attraverso il suo progetto Babiščina / Heirloom (Eredità). La serie prende spunto da un episodio della vita di sua nonna, Marija Kobale (Mica), che negli anni ’60 si recò da un dentista per sostituire un dente danneggiato con uno d’oro. Decenni dopo, Lucija ha fuso quell’oro per riparare a sua volta un dente deteriorato. Questo gesto diventa un simbolo potente di successione e di legame intergenerazionale.

Il fulcro del progetto è un film documentario performativo che segue il viaggio della dentatura, da Mica a Lucija, trasformando la dentatura in un totem simbolico che rappresenta il passaggio dell’eredità. Con un master in comunicazione visiva e una candidatura per il premio OHO 2024, Lucija combina investigazione e gioco, attingendo ai suoi ricordi d’infanzia, alle archiviazioni familiari e all’ambiente in cui è cresciuta. La sua opera è stata esposta in tutta Europa e negli Stati Uniti, ed è rappresentata dalla Galerija Fotografija in Slovenia.

Il cammino della croce: viaggio nel quotidiano bielorusso

Dall’altra parte, Lesia Pčolka, nata nel 1989, è un’artista bielorussa che vive tra Berlino e Bielsk Podlaski, in Polonia. Il suo lavoro si concentra sulla memoria collettiva e su come i racconti storici ufficiali si intrecciano con le storie non documentate del passato presovietico e della vita quotidiana. Pčolka è anche la fondatrice di VEHA Archive, un’iniziativa dedicata alla conservazione della memoria culturale.

Il suo progetto Roadside Objects trae ispirazione dal libro Le croci tradizionali biellorusse dell’etnografo Mikhail Romanyuk. Sebbene l’artista non sia riuscita a rintracciare le croci protettive menzionate, il suo lavoro riflette un’interpretazione contemporanea di questi simboli. Le nuove croci in metallo, decorate dai residenti con nastri e fiori vivaci, si distaccano dal loro significato originale, diventando simboli di orgoglio LGBTQIA+ piuttosto che di un passato patriarcale. Pčolka mostra queste croci come sospese nel paesaggio, evidenziando la loro continua presenza e riproduzione attraverso una pratica sociale vivace e iterativa.

Memoria, libertà e comunità

Nella Halle, due artiste Wendie Zahibo e Ola Skowrońska esplorano temi legati alla memoria, alla identità e alle dinamiche culturali in un mondo globalizzato. Sebbene le due opere possiedano stili e approcci differenti, entrambe propongono una riflessione profonda sull’esperienza umana e sulle sue radici.

Wendie Zahibo: masonn e la riflessione sull’habitat e la memoria afrodiasporica

Il progetto masonn di Wendie Zahibo esplora l’habitat vernacolare e il realismo mistico di quattro territori dell’Atlantico nero: Guadeloupa, Brasile, Costa d’Avorio e Stati Uniti. L’artista francese si concentra sulla creazione di spazi abitativi e culturali unici sviluppati dalle popolazioni afrodiscendenti, che riflettono la loro storia, memoria collettiva, movimento e immaginario.

Utilizzando la fotografia e il collage, Zahibo indaga le nozioni di memoria, libertà e comunità, esaminando le archivi dinamiche delle storie afrodiasporiche. Il suo lavoro mira a creare nuovi spazi utopici di incontro e riflessione, rivelando la continuità culturale e le identità delle diaspore nere. Nata nel 1991, Wendie Zahibo è un’artista interdisciplinare che intreccia arte visiva, fotografia e poesia, invitando a un dialogo tra diverse realtà culturali. Ha esposto in paesi come la Corea del Sud, il Brasile e il Senegal.

Voci di resilienza: un nome e un destino in comune

Dall’altro lato, Ola Skowrońska, nata nel 2001 in Polonia, affronta temi di migrazione e identità nel suo progetto Heda. La Cecenia, una nazione lacerata da conflitti, ha costretto molti dei suoi abitanti a fuggire, creando una generazione di giovani donne che si trovano intrappolate tra due culture. Ola ha iniziato questo progetto ispirata dalla sua amicizia con una giovane donna cecena a Mosca, con la quale non ha potuto più incontrarsi a causa della situazione politica.

Attraverso il suo lavoro, Skowrońska ha fotografato quattro giovani donne cecene che portano lo stesso nome della sua amica, creando un racconto multidimensionale che esplora la migrazione, il trauma, l’appartenenza e l’amicizia. La sua pratica artistica si concentra su progetti a lungo termine, radicati nell’osservazione di fenomeni storici e sociali. Laureata presso il dipartimento fotografico dell’Accademia di Cinema di Łódź, Ola utilizza la fotografia, il film e la performance per dare voce a esperienze spesso trascurate.

Due visioni fotografiche sulla società contemporanea

Nel contesto attuale della fotografia contemporanea, due artisti emergenti, Valentin Valette e Wang Tianyu, offrono prospettive uniche e profonde sulle dinamiche sociali, politiche ed economiche che modellano i loro rispettivi mondi. Pur avendo approcci e temi distinti, entrambi i lavori esplorano le sfide legate all’identità, alla memoria e alla visibilità, pur mantenendo un impegno critico nei confronti delle strutture di potere.

Valentin Valette: Ashes of the Arabian’s Pearl

Atelier 3 Valentin Valette, fotografo e antropologo visivo francese di origine algerina, affronta nel suo progetto Ashes of the Arabian’s Pearl (2021-2023) il periodo di transizione che ha segnato il passaggio dal regno del sultano Qaboos al nuovo sultano Haitham in Oman. L’opera si concentra sulle nuove traiettorie economiche e sociali del Sultanato, esplorando i cambiamenti strutturali legati alla necessità urgente di diversificare l’economia, in particolare a causa dell’esaurirsi delle risorse petrolifere e gaziere.

Valette utilizza un approccio multidisciplinare che combina fotografie in medio formato e l’analisi degli archivi storici, mirando a documentare la lotta di un paese che si trova di fronte a nuove sfide. La sua attenzione si rivolge, in particolare, ai lavoratori migranti, una componente essenziale nella crescita economica del paese, nonché ai loro datori di lavoro. Il fotografo impiega inoltre il concetto di tomason, elaborato dall’artista giapponese Genpei Akasegawa, per riflettere sui resti del passato e sulla memoria collettiva che permea la società omanita. L’opera si distingue per il suo impegno a dare visibilità a quelle storie che spesso rimangono nell’ombra, in un contesto di rapida modernizzazione e trasformazione.

Wang Tianyu: Hiding and Seeking

Se Valette si concentra su dinamiche economiche e politiche in un contesto internazionale, Wang Tianyu, giovane artista cinese, nell’Atelier 1,porta l’attenzione su un tema universale: la violenza e l’oppressione invisibile delle donne all’interno della struttura familiare. Il suo lavoro Hiding and Seeking (Nascondino) esplora attraverso performance e iconografia le aspettative imposte alle donne dalla società patriarcale. La pratica fotografica di Tianyu si fonde con la performance, utilizzando il corpo, i gesti e gli oggetti quotidiani per decostruire le posizioni forzate che le donne sono costrette ad assumere nella vita di tutti i giorni.

La sua ricerca riflette sulla relazione tra visione e cognizione, dove il corpo femminile diventa una lente politica attraverso la quale esplorare le cicatrici lasciate dalle esperienze traumatiche. Con una forte componente autobiografica, Tianyu reinterpreta la sua esperienza personale come una critica alla disciplina domestica imposta, invitando lo spettatore a riflettere sulla natura del potere e del controllo all’interno della famiglia e delle strutture sociali più ampie.

Rendere visibile ciò che è nascosto

Sebbene le tematiche e i contesti siano molto diversi, entrambe le opere di Valette e Tianyu offrono una riflessione profonda su ciò che è visibile e ciò che è nascosto. Valette, con la sua indagine sulle trasformazioni economiche e sociali in Oman, pone l’accento sulla necessità di visibilità per i lavoratori migranti e sull’eredità di un passato che sta lentamente svanendo. D’altro canto, Tianyu usa la fotografia e la performance per mettere in luce le invisibili sofferenze delle donne, dando voce a chi spesso rimane inascoltato.

In un mondo in cui le immagini hanno il potere di raccontare storie e di sfidare le convenzioni, Ashes of the Arabian’s Pearl e Hiding and Seeking si pongono come opere che, pur partendo da esperienze molto diverse, si interrogano sulla stessa domanda: come possiamo dare visibilità a ciò che è nascosto? La risposta, forse, risiede nell’arte stessa, che è capace di rendere visibili le ombre della nostra società e di sollevare domande urgenti sulla giustizia, la memoria e il cambiamento.

Fotografia e Memoria: quattro artisti lituani esplorano temi di trauma, identità e disinformazione

Quattro fotografi lituani, attraverso approcci differenti e distinti, affrontano tematiche profonde legate alla memoria, alla perdita, alla migrazione e alla disinformazione. I loro lavori offrono uno spunto di riflessione sulle sfide contemporanee e sulle difficoltà legate all’identità e alla realtà sociale, utilizzando la fotografia come mezzo di espressione e indagine.

Questi quattro fotografi lituani, pur trattando temi diversi, utilizzano la fotografia come strumento per esplorare e raccontare storie di trauma, dislocazione, perdita e disinformazione. I loro lavori interrogano la verità delle immagini, la memoria collettiva e individuale e le difficoltà della migrazione, stimolando una riflessione profonda sulla realtà contemporanea e sulle sfide che la nostra società deve affrontare. Ogni fotografo, attraverso il proprio approccio unico, ci invita a confrontarci con le ombre della nostra esistenza e a considerare le complesse dinamiche che plasmano il nostro mondo.

Ieva Baltaduonyte: Uprooted

Ieva Baltaduonyte, con il suo progetto Uprooted, racconta la dolorosa esperienza delle donne e delle adolescenti ucraine costrette a fuggire dalla guerra in Ucraina, che ora risiedono a Kaunas, in Lituania. La serie fotografica esplora la resilienza di queste donne di fronte al trauma del dislocamento e alla perdita della loro casa. Le immagini catturano la difficile condizione psicologica dei rifugiati, con particolare attenzione ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico (SSPT), che colpisce una parte significativa della popolazione migrante. Baltaduonyte, fotografa lituana, attinge dalla sua esperienza personale di esilio per esaminare le cicatrici psicologiche lasciate dalla migrazione forzata.

Agnė Gintalaitė: Chasing Digital Truth

Il progetto Chasing Digital Truth di Agnė Gintalaitė affronta il ruolo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale (IA) nella creazione di immagini, riflettendo sulla fiducia che riponiamo nelle fotografie in bianco e nero. L’artista lituana esplora come l’IA possa generare immagini apparentemente vere, ma con errori che rivelano la natura artificiale di queste rappresentazioni. La sua ricerca mette in discussione la veridicità delle immagini digitali, affrontando temi di disinformazione e manipolazione delle immagini. Gintalaitė utilizza l’IA per creare una sintesi tra l’umano e la macchina, sfidando le convenzioni sulla rappresentazione visiva della realtà.

Visvaldas Morkevičius: I Want to Tell You Something

Visvaldas Morkevičius, con il progetto I Want to Tell You Something, esplora il tema della perdita e del ricordo attraverso immagini evocative che mescolano la presenza e l’assenza. Le sue fotografie, che riflettono sull’interazione tra il passato e il futuro, creano un’atmosfera sospesa tra le ombre e la luce. L’artista lituano affronta il dolore del distacco e l’incertezza di andare avanti dopo una perdita, creando immagini che diventano lettere a se stessi sulla necessità di accettare e vivere con il ricordo. Morkevičius indaga le dimensioni emozionali e psicologiche della vita moderna, proponendo una riflessione profonda sulla fragilità dell’esistenza.

Paulius Petraitis: Enjoy the Now

Enjoy the Now di Paulius Petraitis si concentra sulle strategie mediatiche utilizzate per deumanizzare i migranti che entrano in Lituania dal Bielorussia durante l’estate del 2021. L’artista raccoglie immagini di giornali che mostrano i volti dei migranti pixellati, rendendo invisibili le loro identità e cancellando la loro umanità. Petraitis reinterpreta queste immagini come sfondo di paesaggi lituani, cercando tracce di una presenza umana che è stata volutamente eliminata dalla narrativa mediatica. Il suo lavoro esplora le implicazioni politiche e sociali della disinformazione e della manipolazione dell’immagine, mettendo in luce il processo di cancellazione dell’identità e dell’appartenenza.

 

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