Manuela Sedmach esorta a “Non smettere mai di vedere”
Tempo stimato per la lettura: 5,6 minuti
Sono paesaggi dell’anima, in cui la forma delle cose scompare per lasciare spazio all’essenza della vita e al suo respiro spirituale. Sono le tele di Manuela Sedmach esposte per la prima volta alla Galleria Continua di Parigi. Nunca pare de ver (Non smettere mai di vedere) è il titolo di questa mostra, in corso fino al 2 aprile 2023, in cui l’artista presenta alcuni lavori già proposti alla sede di San Gimignano della galleria, accompagnati da una serie di piccoli progetti che Manuela Sedmach ha portato lei stessa dal Portogallo, dove ora vive.
Tratto da una canzone portoghese (Nunca pare de lutar), il titolo della mostra riflette la passione dell’artista nel prendere in prestito i titoli delle opere (letterarie, musicali, cinematografiche) che la animano e la ispirano.
Un’esperienza estetica coinvolgente
La pittrice – nata a Trieste nel 1953 in una famiglia in cui tutti sapevano disegnare – dopo aver frequentato la scuola d’arte a Trieste, ha iniziato la sua carriera negli anni Settanta realizzando numerose mostre in gallerie e spazi museali. Nel 1999, ha vinto il “Pollock-Krasner Foundation Grant”, New York. A Parigi, sono attualmente in mostra alcune serie i cui temi sono il paesaggio, il cambiamento profondo, “da cui non si torna più indietro”.
L’astrazione permette a Manuela Sedmach di prendere le distanze rispetto alla somiglianza formale, delle cose e della natura, in modo da concentrarsi sull’essenza del suo lavoro. In un gioco di misteriose corrispondenze tra la vita interiore dell’artista e quella dello spettatore. Le tele non hanno un nome, fanno parte di alcune serie, senza essere numerate.
Il titolo come un momento della vita
«Ogni serie ha il suo titolo. Per me il titolo è l’opera in sé, in cui si raggruppa il lavoro di un anno o anche di più. Per esempio, la serie Tornare a casa è del 2009. In quell’anno c’erano tanti tornare a casa. Quindi molte opere hanno lo stesso titolo».
I titoli fanno riferimento a degli stati d’animo. La casa per Manuela Sedmach è dentro di sé. «Tornare a casa per lei vuol dire tornare a sé stessi, non perdersi, non farsi disorientare dati tanti eventi esteriori. Non perdere il senso della propria vita, il valore della propria anima. Mantenere un proprio pensiero e lavorare su questo pensiero».
Passare il confine
«Passare al Bosco, il titolo l’ho “rubato” dal libro Trattato del Ribelle (saggio sociopolitico del 1951 di Ernst Jünger, ndr), che avevo comparto negli anni 70, ma che non avevo subito letto. A distanza di anni ho ripreso il testo, dove c’è un capitolo intitolato “passare al bosco”. Passare al bosco è fare un passo in avanti, decidere di prendere in mano la propria vita e di cambiarla, sapendo che nulla sarà come prima.»
Anche Liminal, il nome di un’altra serie, ha un significato analogo. Questa espressione rappresenta un grande cambiamento della propria vita, dove niente sarà più come prima. Fa riferimento ai riti di transizione nelle tribù, quando l’adolescente diventa uomo. Un cambiamento non solo fisico ma anche interiore, che trasforma la vita di una persona per sempre. E siamo continuamente confrontati a dei grandi cambiamenti.
Il deserto fonte d’inspirazione
«Per questa serie, il mio lavoro a partito un po’ dall’idea del deserto. Sono rimasta affascinata da quello marocchino. Un luogo molto intenso, dove è importare sapere stare con sé stessi, anche se talvolta può anche spaventare. Quindi ho rappresentato un paesaggio-non paesaggio, non descrittivo ma un paesaggio dell’anima.
Nel deserto tutto è in continuo movimento, pieno di una vita sotterranea, come dentro ogni individuo. Il deserto diventa un luogo metaforico e metafisico. Mi ha colpito questo “starci dentro”, il rumore del silenzio e nel cielo, la quantità di stelle incredibili, ben visibili perché non ci sono luci.»
L’artista come lo stalker di Tarkovskij
Le sue tele sono come degli schermi, su cui ogni spettatore proietta, mosso dall’emozione estetica, le proprie esperienze. Manuela Sedmach è appassionata di cinema e soprattutto del lavoro di Andrej Tarkovskij, che considera quasi come un compagno di viaggio. «Amo molto il film Stalker. Lo stalker per me è l’artista. Sono io che accompagno le persone in questa “zona”. Cos’è questa “zona”? Forse più o meno lo stesso luogo dove ci si incontra con sé stessi. Che non è lo stesso per tutti.
Per me resta un mistero sapere cosa c’è nella “zona”. Non saprò mai quello che le persone vedono guardando il mio lavoro, non essendoci oggetti riconoscibili. Ognuno completa con la propria esperienza, proietta il proprio vissuto. L’unico vero soggetto è la luce: un soggetto evanescente.»
Lunghi tempi di realizzazione
Alla galleria Continua di Parigi, lo spettatore viene invitato a un viaggio interiore, nelle sale del primo piano, in cui le pareti “rovinate” diventano cromaticamente lo spazio ideale dove ammirare le opere di Manuela Sedmach. Opere che richiedono ore intense di lavoro. «Ho molta difficoltà a fare i lavori piccoli. Ci sono dei periodi in cui ci riesco e cerco di sfruttarli», spiega la pittrice.
«Però preferisco le tele di grandi dimensioni, anche se è un lavoro impegnativo. Un lavoro molto lungo, perché lavorando con l’acrilico ci sono dei tempi tecnici di asciugatura. Per esempio, in un giorno posso fare tre passaggi, dato che bagno totalmente la tela.»
Solo tre colori
«È un vero esercizio fisico», aggiunge l’artista. «Corro da una parte all’altra della tele affinché non ci siano imperfezioni. Ma è quasi una necessità questo tipo di lavoro. Tutto il corpo è coinvolto. Inizio a preparare la tela con il nero, che deve essere steso perfettamente. Poi uso pennelli grandi o pennellesse, per creare le velature.
Uso tre colori: il nero, il bianco e la terra di Siena. Sovrapposti creano delle velature impalpabili, che portano pian piano di nuovo la tela alla luce. Ma il nero di fondo c’è sempre, e credo che l’occhio lo percepisca. Rende la superficie vibrante.»
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Manuela Sedmach esorta a “Non smettere mai di vedere”
Tempo stimato per la lettura: 16 minuti
Sono paesaggi dell’anima, in cui la forma delle cose scompare per lasciare spazio all’essenza della vita e al suo respiro spirituale. Sono le tele di Manuela Sedmach esposte per la prima volta alla Galleria Continua di Parigi. Nunca pare de ver (Non smettere mai di vedere) è il titolo di questa mostra, in corso fino al 2 aprile 2023, in cui l’artista presenta alcuni lavori già proposti alla sede di San Gimignano della galleria, accompagnati da una serie di piccoli progetti che Manuela Sedmach ha portato lei stessa dal Portogallo, dove ora vive.
Tratto da una canzone portoghese (Nunca pare de lutar), il titolo della mostra riflette la passione dell’artista nel prendere in prestito i titoli delle opere (letterarie, musicali, cinematografiche) che la animano e la ispirano.
Un’esperienza estetica coinvolgente
La pittrice – nata a Trieste nel 1953 in una famiglia in cui tutti sapevano disegnare – dopo aver frequentato la scuola d’arte a Trieste, ha iniziato la sua carriera negli anni Settanta realizzando numerose mostre in gallerie e spazi museali. Nel 1999, ha vinto il “Pollock-Krasner Foundation Grant”, New York. A Parigi, sono attualmente in mostra alcune serie i cui temi sono il paesaggio, il cambiamento profondo, “da cui non si torna più indietro”.
L’astrazione permette a Manuela Sedmach di prendere le distanze rispetto alla somiglianza formale, delle cose e della natura, in modo da concentrarsi sull’essenza del suo lavoro. In un gioco di misteriose corrispondenze tra la vita interiore dell’artista e quella dello spettatore. Le tele non hanno un nome, fanno parte di alcune serie, senza essere numerate.
Il titolo come un momento della vita
«Ogni serie ha il suo titolo. Per me il titolo è l’opera in sé, in cui si raggruppa il lavoro di un anno o anche di più. Per esempio, la serie Tornare a casa è del 2009. In quell’anno c’erano tanti tornare a casa. Quindi molte opere hanno lo stesso titolo».
I titoli fanno riferimento a degli stati d’animo. La casa per Manuela Sedmach è dentro di sé. «Tornare a casa per lei vuol dire tornare a sé stessi, non perdersi, non farsi disorientare dati tanti eventi esteriori. Non perdere il senso della propria vita, il valore della propria anima. Mantenere un proprio pensiero e lavorare su questo pensiero».
Passare il confine
«Passare al Bosco, il titolo l’ho “rubato” dal libro Trattato del Ribelle (saggio sociopolitico del 1951 di Ernst Jünger, ndr), che avevo comparto negli anni 70, ma che non avevo subito letto. A distanza di anni ho ripreso il testo, dove c’è un capitolo intitolato “passare al bosco”. Passare al bosco è fare un passo in avanti, decidere di prendere in mano la propria vita e di cambiarla, sapendo che nulla sarà come prima.»
Anche Liminal, il nome di un’altra serie, ha un significato analogo. Questa espressione rappresenta un grande cambiamento della propria vita, dove niente sarà più come prima. Fa riferimento ai riti di transizione nelle tribù, quando l’adolescente diventa uomo. Un cambiamento non solo fisico ma anche interiore, che trasforma la vita di una persona per sempre. E siamo continuamente confrontati a dei grandi cambiamenti.
Il deserto fonte d’inspirazione
«Per questa serie, il mio lavoro a partito un po’ dall’idea del deserto. Sono rimasta affascinata da quello marocchino. Un luogo molto intenso, dove è importare sapere stare con sé stessi, anche se talvolta può anche spaventare. Quindi ho rappresentato un paesaggio-non paesaggio, non descrittivo ma un paesaggio dell’anima.
Nel deserto tutto è in continuo movimento, pieno di una vita sotterranea, come dentro ogni individuo. Il deserto diventa un luogo metaforico e metafisico. Mi ha colpito questo “starci dentro”, il rumore del silenzio e nel cielo, la quantità di stelle incredibili, ben visibili perché non ci sono luci.»
L’artista come lo stalker di Tarkovskij
Le sue tele sono come degli schermi, su cui ogni spettatore proietta, mosso dall’emozione estetica, le proprie esperienze. Manuela Sedmach è appassionata di cinema e soprattutto del lavoro di Andrej Tarkovskij, che considera quasi come un compagno di viaggio. «Amo molto il film Stalker. Lo stalker per me è l’artista. Sono io che accompagno le persone in questa “zona”. Cos’è questa “zona”? Forse più o meno lo stesso luogo dove ci si incontra con sé stessi. Che non è lo stesso per tutti.
Per me resta un mistero sapere cosa c’è nella “zona”. Non saprò mai quello che le persone vedono guardando il mio lavoro, non essendoci oggetti riconoscibili. Ognuno completa con la propria esperienza, proietta il proprio vissuto. L’unico vero soggetto è la luce: un soggetto evanescente.»
Lunghi tempi di realizzazione
Alla galleria Continua di Parigi, lo spettatore viene invitato a un viaggio interiore, nelle sale del primo piano, in cui le pareti “rovinate” diventano cromaticamente lo spazio ideale dove ammirare le opere di Manuela Sedmach. Opere che richiedono ore intense di lavoro. «Ho molta difficoltà a fare i lavori piccoli. Ci sono dei periodi in cui ci riesco e cerco di sfruttarli», spiega la pittrice.
«Però preferisco le tele di grandi dimensioni, anche se è un lavoro impegnativo. Un lavoro molto lungo, perché lavorando con l’acrilico ci sono dei tempi tecnici di asciugatura. Per esempio, in un giorno posso fare tre passaggi, dato che bagno totalmente la tela.»
Solo tre colori
«È un vero esercizio fisico», aggiunge l’artista. «Corro da una parte all’altra della tele affinché non ci siano imperfezioni. Ma è quasi una necessità questo tipo di lavoro. Tutto il corpo è coinvolto. Inizio a preparare la tela con il nero, che deve essere steso perfettamente. Poi uso pennelli grandi o pennellesse, per creare le velature.
Uso tre colori: il nero, il bianco e la terra di Siena. Sovrapposti creano delle velature impalpabili, che portano pian piano di nuovo la tela alla luce. Ma il nero di fondo c’è sempre, e credo che l’occhio lo percepisca. Rende la superficie vibrante.»
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