Il fotografo dei luoghi abbandonati Nicola Bertellotti: “I miei scatti in un regno di silenzio e solitudine”
Tempo stimato per la lettura: 5,2 minuti
Nicola Bertellotti è il fotografo dei luoghi abbandonati, famosissimo e seguitissimo sui social e non solo. Abbiamo amato e amiamo i suoi scatti e in questa intervista ci racconta come tutto sia nato dai suoi viaggi “esplorando paesi meravigliosi, la fotografia era il mezzo che mi permetteva di trattenere un po’ di quella bellezza che incontravo sulla mia strada“.
Nicola Bertellotti, classe 1976, nasce a Pietrasanta (LU). Fin da giovanissimo l’amore per i viaggi lo porta ad avvicinarsi alla fotografia. La lettura de “L’usage du monde” di Nicolas Bouvier fa nascere in lui il desiderio di raccontare tutto ciò che incontra come un affresco, mettendo in risalto la nuda realtà dei luoghi. Studia storia all’Università di Pisa, dove si avvicina alla filosofia di John Ruskin e dove il senso di caducità di ogni cosa si radica profondamente nella sua visione del mondo. La sua ricerca si orienta così verso l’estetica della decadenza, portandolo a sviluppare una poetica improntata alla bellezza dell’abbandono. Dal 2013 lavora come fotografo professionista Fine Art. Le sue opere sono apparse su prestigiose riviste e sono state esposte in mostre e fiere d’arte internazionali.
Nicola, parto da una domanda che di solito si fa alla fine: di cosa ti stai occupando adesso?
Sto preparando una mostra importante in Estonia, nel museo della città di Parnu. Verrà inaugurata a giugno e sarà coinvolta anche l’ambasciata italiana. Il titolo dell’esposizione è “The great beauty”, lo stesso nome della mia serie dedicata all’abbandono di ambienti arredati con magnificenza.
Sei appassionato di viaggi, è stata questa la spinta che ti ha portato a fotografare? Leggo dalla tua biografia che due autori, fra gli altri, hanno influito nella tua scelta di viaggiare e scattare foto, che sono Nicolas Bouvier e John Ruskin. Ci puoi dire in che modo li hai “incontrati” e cosa ti ha sorpreso in particolare?
Sì, tutto è cominciato esplorando paesi meravigliosi, la fotografia era il mezzo che mi permetteva di trattenere un po’ di quella bellezza che incontravo sulla mia strada. Considero “La polvere del mondo” di Nicolas Bouvier il miglior libro di viaggio mai scritto, un breviario che mi ha aiutato a crescere e orientarmi nel tempo e nello spazio: l’alleggerimento del bagaglio che diventa lezione di stile e preludio al più misterioso dei viaggi, quando si va nudi e soli oltre la linea d’ombra, senza conoscere né lingua né terreno. Ruskin l’ho scoperto all’università, mi ha colpito da subito la sua interpretazione dell’arte e dell’architettura che ha influenzato così tanto l’estetica vittoriana ed edoardiana.
I tuoi scenari sono onirici, ricordano luoghi che non esistono più ma che allo stesso tempo rivivono nelle tue immagini: cosa significa, per te, fotografare un luogo abbandonato?
Le rovine moderne, private degli umori, dei profumi, delle tensioni, delle relazioni tra le persone che le hanno abitate e prodotte, sono monumenti di un mondo disassemblato dal tempo, lacerti di un tutto perduto, specchi di società sulle quali si fonda l’identità del nostro presente. Ecco, per me fotografare un luogo abbandonato significa togliere il velo a quegli specchi.
Questa scelta di stile è stata fatta per evadere la realtà o per rappresentare la realtà in forma onirica? Ci sono dei messaggi che vuoi lanciare attraverso i tuoi scatti?
Come ripeto spesso, il mio non è lavoro di denuncia ma prettamente estetico. Mi rifaccio alla sensibilità romantica, che voleva infondere alla contemplazione di natura e ruderi una forte componente malinconica, una poetica nostalgia dell’armonia perduta.
Che macchina e che tecniche utilizzi?
Scatto in digitale con una Nikon D800. Le condizioni di luce di questi luoghi sono quasi sempre precarie quindi è necessario l’uso di un buon treppiede.
Una frase celebre di John Ruskin recita così: “Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni”. Che ne pensi?
Pur apprezzando la gran parte del pensiero di Ruskin trovo troppo radicale questa sua famosa affermazione. Esiste anche il restauro necessario e ben eseguito, che non stravolge il passato e l’identità di un luogo.
Che cosa significa per te la parola ‘decadenza’?
È immergermi in una dolce malinconia, in un regno di silenzio e solitudine. È la sospensione del tempo in cui la coscienza si sfinisce nella percezione dello spazio.
Qual è la cosa che trovi più difficile fotografare?
Non sempre riesco con la fotografia a decodificare quello che provo intimamente in un luogo. In quei casi ci rinuncio, le immagini meramente descrittive non mi interessano.
C’è un tuo fotografo di riferimento, un “maestro” di ispirazione?
Ci sono alcuni giganti della fotografia che sicuramente mi hanno ispirato. Robert Polidori, che è una specie nume tutelare per il mio genere, Gabriele Basilico, per la sua visione unica del paesaggio industriale e Edward Burtynsky, per la capacità di trovare bellezza estetica in luoghi improbabili.
C’è stato un incontro con qualcuno che si rivelato importante per la tua crescita professionale? E se sì, perché?
Un amico fotografo, con cui con ho condiviso questa mia passione che poi è diventata anche il mio lavoro. Il confronto è stato fondamentale per crescere, soprattutto tecnicamente.
Oggi la fotografia è un mezzo che si è esteso praticamente a tutti. Qual è il tuo pensiero in merito? Credi che la fotografia debba essere un mezzo alla portata di tutti?
L’avvento del digitale ha indubbiamente facilitato la condivisione di immagini. La generazione attuale è quella più fotografata e filmata di sempre. È una democratizzazione che accolgo anche volentieri, ma forse c’è un’overdose di foto troppo “belle”. Ecco, a me non interessa la foto bella ma quella che racconta una storia. Se mettiamo questo filtro agli scatti che ci bombardano ogni giorno ne rimangono davvero pochi. Rimangono le idee.
Website: www.nicolabertellotti.com
Facebook: Nicola Bertellotti
Instagram: Nicola Bertellotti
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Il fotografo dei luoghi abbandonati Nicola Bertellotti: “I miei scatti in un regno di silenzio e solitudine”
Tempo stimato per la lettura: 16 minuti
Nicola Bertellotti è il fotografo dei luoghi abbandonati, famosissimo e seguitissimo sui social e non solo. Abbiamo amato e amiamo i suoi scatti e in questa intervista ci racconta come tutto sia nato dai suoi viaggi “esplorando paesi meravigliosi, la fotografia era il mezzo che mi permetteva di trattenere un po’ di quella bellezza che incontravo sulla mia strada“.
Nicola Bertellotti, classe 1976, nasce a Pietrasanta (LU). Fin da giovanissimo l’amore per i viaggi lo porta ad avvicinarsi alla fotografia. La lettura de “L’usage du monde” di Nicolas Bouvier fa nascere in lui il desiderio di raccontare tutto ciò che incontra come un affresco, mettendo in risalto la nuda realtà dei luoghi. Studia storia all’Università di Pisa, dove si avvicina alla filosofia di John Ruskin e dove il senso di caducità di ogni cosa si radica profondamente nella sua visione del mondo. La sua ricerca si orienta così verso l’estetica della decadenza, portandolo a sviluppare una poetica improntata alla bellezza dell’abbandono. Dal 2013 lavora come fotografo professionista Fine Art. Le sue opere sono apparse su prestigiose riviste e sono state esposte in mostre e fiere d’arte internazionali.
Nicola, parto da una domanda che di solito si fa alla fine: di cosa ti stai occupando adesso?
Sto preparando una mostra importante in Estonia, nel museo della città di Parnu. Verrà inaugurata a giugno e sarà coinvolta anche l’ambasciata italiana. Il titolo dell’esposizione è “The great beauty”, lo stesso nome della mia serie dedicata all’abbandono di ambienti arredati con magnificenza.
Sei appassionato di viaggi, è stata questa la spinta che ti ha portato a fotografare? Leggo dalla tua biografia che due autori, fra gli altri, hanno influito nella tua scelta di viaggiare e scattare foto, che sono Nicolas Bouvier e John Ruskin. Ci puoi dire in che modo li hai “incontrati” e cosa ti ha sorpreso in particolare?
Sì, tutto è cominciato esplorando paesi meravigliosi, la fotografia era il mezzo che mi permetteva di trattenere un po’ di quella bellezza che incontravo sulla mia strada. Considero “La polvere del mondo” di Nicolas Bouvier il miglior libro di viaggio mai scritto, un breviario che mi ha aiutato a crescere e orientarmi nel tempo e nello spazio: l’alleggerimento del bagaglio che diventa lezione di stile e preludio al più misterioso dei viaggi, quando si va nudi e soli oltre la linea d’ombra, senza conoscere né lingua né terreno. Ruskin l’ho scoperto all’università, mi ha colpito da subito la sua interpretazione dell’arte e dell’architettura che ha influenzato così tanto l’estetica vittoriana ed edoardiana.
I tuoi scenari sono onirici, ricordano luoghi che non esistono più ma che allo stesso tempo rivivono nelle tue immagini: cosa significa, per te, fotografare un luogo abbandonato?
Le rovine moderne, private degli umori, dei profumi, delle tensioni, delle relazioni tra le persone che le hanno abitate e prodotte, sono monumenti di un mondo disassemblato dal tempo, lacerti di un tutto perduto, specchi di società sulle quali si fonda l’identità del nostro presente. Ecco, per me fotografare un luogo abbandonato significa togliere il velo a quegli specchi.
Questa scelta di stile è stata fatta per evadere la realtà o per rappresentare la realtà in forma onirica? Ci sono dei messaggi che vuoi lanciare attraverso i tuoi scatti?
Come ripeto spesso, il mio non è lavoro di denuncia ma prettamente estetico. Mi rifaccio alla sensibilità romantica, che voleva infondere alla contemplazione di natura e ruderi una forte componente malinconica, una poetica nostalgia dell’armonia perduta.
Che macchina e che tecniche utilizzi?
Scatto in digitale con una Nikon D800. Le condizioni di luce di questi luoghi sono quasi sempre precarie quindi è necessario l’uso di un buon treppiede.
Una frase celebre di John Ruskin recita così: “Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni”. Che ne pensi?
Pur apprezzando la gran parte del pensiero di Ruskin trovo troppo radicale questa sua famosa affermazione. Esiste anche il restauro necessario e ben eseguito, che non stravolge il passato e l’identità di un luogo.
Che cosa significa per te la parola ‘decadenza’?
È immergermi in una dolce malinconia, in un regno di silenzio e solitudine. È la sospensione del tempo in cui la coscienza si sfinisce nella percezione dello spazio.
Qual è la cosa che trovi più difficile fotografare?
Non sempre riesco con la fotografia a decodificare quello che provo intimamente in un luogo. In quei casi ci rinuncio, le immagini meramente descrittive non mi interessano.
C’è un tuo fotografo di riferimento, un “maestro” di ispirazione?
Ci sono alcuni giganti della fotografia che sicuramente mi hanno ispirato. Robert Polidori, che è una specie nume tutelare per il mio genere, Gabriele Basilico, per la sua visione unica del paesaggio industriale e Edward Burtynsky, per la capacità di trovare bellezza estetica in luoghi improbabili.
C’è stato un incontro con qualcuno che si rivelato importante per la tua crescita professionale? E se sì, perché?
Un amico fotografo, con cui con ho condiviso questa mia passione che poi è diventata anche il mio lavoro. Il confronto è stato fondamentale per crescere, soprattutto tecnicamente.
Oggi la fotografia è un mezzo che si è esteso praticamente a tutti. Qual è il tuo pensiero in merito? Credi che la fotografia debba essere un mezzo alla portata di tutti?
L’avvento del digitale ha indubbiamente facilitato la condivisione di immagini. La generazione attuale è quella più fotografata e filmata di sempre. È una democratizzazione che accolgo anche volentieri, ma forse c’è un’overdose di foto troppo “belle”. Ecco, a me non interessa la foto bella ma quella che racconta una storia. Se mettiamo questo filtro agli scatti che ci bombardano ogni giorno ne rimangono davvero pochi. Rimangono le idee.
Website: www.nicolabertellotti.com
Facebook: Nicola Bertellotti
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