Vivian Maier, la tata che divenne un idolo della fotografia
Tempo stimato per la lettura: 4,8 minuti
«Imponente, denso, luminoso e brillante», sono le parole di Anne Morin, curatrice dell’esposizione dedicata a Vivian Maier al Museo del Lussemburgo a Parigi, dal 15 settembre 2021 al 16 gennaio 2022, per descrivere il lavoro di questa fotografa atipica.
Vivian Maier è nata a New York nel 1926. Suo padre è di origine austro-ungarica e sua madre è francese, il che l’ha portata a soggiornare più volte in Francia in gioventù. Ha iniziato a lavorare come tata nel 1951, prima a New York poi, fino agli anni ’90 a Chicago dove è morta nella primavera del 2009.
Un’artista discreta, che ha preferito passare inosservata tutta la vita, costudendo gelosamente il suo lavoro, fino alla scoperta, nel 2007, del suo corpus fotografico composto da più di 120.000 immagini fotografiche, pellicole super 8 e 16mm, registrazioni varie, fotografie sparse, una moltitudine di film non sviluppati e tanti altri reperti affascinanti. Questa passione che la abita e che diventerà un’attività quasi quotidiana, la eleva oggi al rango dei più grandi fotografi emblematici della Street Photography, e la fa entrare nella storia al fianco di Diane Arbus, Robert Frank, Helen Levitt o Garry Winogrand.
Temi ricorrenti sono presenti in tutto il lavoro di Vivian Maier, che fungono da pesi e bilanciano la sua architettura generale, definendo fin dall’inizio e dalle sue prime immagini, un vocabolario, una sintassi, un linguaggio che sceglie per raccontare la sua storia. Le scene di strada, il suo teatro preferito e i quartieri popolari, dove incontra la vita, costituiscono il primo tema del suo lavoro. Attraverso molti ritratti di estranei e persone a cui si identifica e a cui consegna una frazione di secondo di eternità incontrando i loro occhi, Vivian Maier fissa un gesto, un’espressione, una situazione, la grazia delle piccole cose semplici.
Il suo linguaggio fotografico è al crocevia tra la fotografia umanista e la della Street Photography: scene di strada, cronache da marciapiede, ritratti, autoritratti, gesti e dettagli. È nel cuore della società americana, a New York dal 1951 e a Chicago dal 1956, che questa tata osserva meticolosamente il tessuto urbano che già riflette i grandi cambiamenti sociali e politici della sua storia. Questo è il tempo del sogno americano e della modernità sovraesposta.
«In bianco e nero poi a colori, mute prima di fare rumore, le sue fotografie ritmate raccontano la storia dei quartieri popolari di New York e Chicago. Durante tutta la sua vita di governante, Vivian Maier ha scattato foto al volo senza altro scopo che perlustrare le strade e avventurarsi in questa geografia umana in continuo movimento la cui trama è formata da persone anonime che si intersecano. Vivian Maier guarda la vita, la osserva, la segue, a volte la pedina e non lascia nulla al caso. Le scene che fotografa sono spesso aneddoti, coincidenze, lapsus dei momenti reali, “residui” della vita sociale a cui nessuno paga attenzione ma che tuttavia diventano oggetto delle sue narrazioni. Ognuna delle sue immagini si colloca proprio nel luogo in cui l’ordinario viene meno, dove il reale sfugge e diventa straordinario», scrive la curatrice della mostra Anne Morin.
E poi c’è l’universo dei bambini che è suo da tanto tempo, e che è anche il mondo della libertà dove il tempo non esiste più. Forse è per questo, Vivian Maier ha saputo guardare il mondo con quest’attitudine propria dei bambini, come se il visibile fosse di per sé una scoperta sempre rinnovata, un gioco senza regole, dove tutto è possibile. Governante per quasi quarant’anni, Maier è stata coinvolta nella vita dei bambini di cui si occupava, e che spesso ha ritratto.
Si cimenterà con i video, con la sua Super 8 o 16mm, nel tentativo di non affrettare più il tempo ma piuttosto di fissarlo al ritmo del suo sguardo. Quello che Vivian Maier filma non è una scena, sono i movimenti del suo sguardo nello spazio, alla ricerca dell’immagine fotografica.
Al centro dei temi esplorati da Vivian Maier c’è un tema importante che sembra strutturare tutto il suo lavoro. È la ricerca della propria identità attraverso gli autoritratti. Sono numerose e si presentano in molte varianti e tipologie, e diventano lingua nella lingua. Una forma di duplicazione negli abissi.
La mostra al Museo del Lussemburgo è organizzata lungo dei grandi assi tematici: autoritratto e rappresentazione di sé; la strada, teatro dell’ordinario; ritratti: identità notevoli; gesti interstiziali: un inventario; giochi cinetici e finzione; cinema; fotografia a colori; infanzia e infine indizi.
Il pubblico ha accesso a una parte degli archivi inediti della fotografa, di cui sono presentate nuove analisi scientifiche, che riuniscono diversi aspetti della sua creazione. Questi lavori consentono di creare collegamenti e corrispondenze: fotografie d’epoca che Vivian Maier ha potuto scattare, pellicole in Super 8, che ci informano sulla sua ricerca dell’immagine fotografica, registrazioni audio che forniscono importanti informazioni sulla sua pratica artistica.
Infine, sono esposte anche le sue macchine fotografiche, uno dei suoi cappelli iconici e le fotografie in studio della sua collezione, che mostrano i suoi interessi e le possibili influenze nel suo lavoro. Quindi, lo scopo di questa mostra è quello di intrecciare insieme questi elementi e di ricostruire, e presentare al pubblico, non solo la parte visibile dell’opera di Vivian Maier, grande fotografa in incognito ieri, idolo oggi, che ha condotto una vita d’artista segreta d’artista restando al servizio degli altri.
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Vivian Maier, la tata che divenne un idolo della fotografia
Tempo stimato per la lettura: 14 minuti
«Imponente, denso, luminoso e brillante», sono le parole di Anne Morin, curatrice dell’esposizione dedicata a Vivian Maier al Museo del Lussemburgo a Parigi, dal 15 settembre 2021 al 16 gennaio 2022, per descrivere il lavoro di questa fotografa atipica.
Vivian Maier è nata a New York nel 1926. Suo padre è di origine austro-ungarica e sua madre è francese, il che l’ha portata a soggiornare più volte in Francia in gioventù. Ha iniziato a lavorare come tata nel 1951, prima a New York poi, fino agli anni ’90 a Chicago dove è morta nella primavera del 2009.
Un’artista discreta, che ha preferito passare inosservata tutta la vita, costudendo gelosamente il suo lavoro, fino alla scoperta, nel 2007, del suo corpus fotografico composto da più di 120.000 immagini fotografiche, pellicole super 8 e 16mm, registrazioni varie, fotografie sparse, una moltitudine di film non sviluppati e tanti altri reperti affascinanti. Questa passione che la abita e che diventerà un’attività quasi quotidiana, la eleva oggi al rango dei più grandi fotografi emblematici della Street Photography, e la fa entrare nella storia al fianco di Diane Arbus, Robert Frank, Helen Levitt o Garry Winogrand.
Temi ricorrenti sono presenti in tutto il lavoro di Vivian Maier, che fungono da pesi e bilanciano la sua architettura generale, definendo fin dall’inizio e dalle sue prime immagini, un vocabolario, una sintassi, un linguaggio che sceglie per raccontare la sua storia. Le scene di strada, il suo teatro preferito e i quartieri popolari, dove incontra la vita, costituiscono il primo tema del suo lavoro. Attraverso molti ritratti di estranei e persone a cui si identifica e a cui consegna una frazione di secondo di eternità incontrando i loro occhi, Vivian Maier fissa un gesto, un’espressione, una situazione, la grazia delle piccole cose semplici.
Il suo linguaggio fotografico è al crocevia tra la fotografia umanista e la della Street Photography: scene di strada, cronache da marciapiede, ritratti, autoritratti, gesti e dettagli. È nel cuore della società americana, a New York dal 1951 e a Chicago dal 1956, che questa tata osserva meticolosamente il tessuto urbano che già riflette i grandi cambiamenti sociali e politici della sua storia. Questo è il tempo del sogno americano e della modernità sovraesposta.
«In bianco e nero poi a colori, mute prima di fare rumore, le sue fotografie ritmate raccontano la storia dei quartieri popolari di New York e Chicago. Durante tutta la sua vita di governante, Vivian Maier ha scattato foto al volo senza altro scopo che perlustrare le strade e avventurarsi in questa geografia umana in continuo movimento la cui trama è formata da persone anonime che si intersecano. Vivian Maier guarda la vita, la osserva, la segue, a volte la pedina e non lascia nulla al caso. Le scene che fotografa sono spesso aneddoti, coincidenze, lapsus dei momenti reali, “residui” della vita sociale a cui nessuno paga attenzione ma che tuttavia diventano oggetto delle sue narrazioni. Ognuna delle sue immagini si colloca proprio nel luogo in cui l’ordinario viene meno, dove il reale sfugge e diventa straordinario», scrive la curatrice della mostra Anne Morin.
E poi c’è l’universo dei bambini che è suo da tanto tempo, e che è anche il mondo della libertà dove il tempo non esiste più. Forse è per questo, Vivian Maier ha saputo guardare il mondo con quest’attitudine propria dei bambini, come se il visibile fosse di per sé una scoperta sempre rinnovata, un gioco senza regole, dove tutto è possibile. Governante per quasi quarant’anni, Maier è stata coinvolta nella vita dei bambini di cui si occupava, e che spesso ha ritratto.
Si cimenterà con i video, con la sua Super 8 o 16mm, nel tentativo di non affrettare più il tempo ma piuttosto di fissarlo al ritmo del suo sguardo. Quello che Vivian Maier filma non è una scena, sono i movimenti del suo sguardo nello spazio, alla ricerca dell’immagine fotografica.
Al centro dei temi esplorati da Vivian Maier c’è un tema importante che sembra strutturare tutto il suo lavoro. È la ricerca della propria identità attraverso gli autoritratti. Sono numerose e si presentano in molte varianti e tipologie, e diventano lingua nella lingua. Una forma di duplicazione negli abissi.
La mostra al Museo del Lussemburgo è organizzata lungo dei grandi assi tematici: autoritratto e rappresentazione di sé; la strada, teatro dell’ordinario; ritratti: identità notevoli; gesti interstiziali: un inventario; giochi cinetici e finzione; cinema; fotografia a colori; infanzia e infine indizi.
Il pubblico ha accesso a una parte degli archivi inediti della fotografa, di cui sono presentate nuove analisi scientifiche, che riuniscono diversi aspetti della sua creazione. Questi lavori consentono di creare collegamenti e corrispondenze: fotografie d’epoca che Vivian Maier ha potuto scattare, pellicole in Super 8, che ci informano sulla sua ricerca dell’immagine fotografica, registrazioni audio che forniscono importanti informazioni sulla sua pratica artistica.
Infine, sono esposte anche le sue macchine fotografiche, uno dei suoi cappelli iconici e le fotografie in studio della sua collezione, che mostrano i suoi interessi e le possibili influenze nel suo lavoro. Quindi, lo scopo di questa mostra è quello di intrecciare insieme questi elementi e di ricostruire, e presentare al pubblico, non solo la parte visibile dell’opera di Vivian Maier, grande fotografa in incognito ieri, idolo oggi, che ha condotto una vita d’artista segreta d’artista restando al servizio degli altri.
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